C’è una nuvola, in cielo.
Copre giusto la luna. Giusto la luna e il sorriso della stregatta.
Poi se ne va, perché soffia forte il vento del Nord. E la spazza via.
C’è una nuvola, in cielo. Poi se ne va.
E per un attimo la vedo lì, bianca, a mezz’asta, a dirmi che la luce non manca.
Chiudo gli occhi, e non ci capisco tanto bene perché sono annebbiata.
Dalla seconda bottiglia di Sergio che mi son bevuta da sola? O forse dagli occhiali appannati da una sostanza salata e viscosa, che taluni chiamano lacrime? Non lo so, fumo sigarette, ascolto musica da intellettuale e non me ne frega un cazzo di niente: al guerriero che combatte e perde interessa solo la prossima battaglia.
Almeno finché sarà vero che tramps like us baby we were born to run.
C’è una nuvola nera, adesso, in cielo, che copre la luna.
E come preconizzavo, il pezzo più bello e più intenso di ‘Divenire’ è l’unico che posso ascoltare.
‘Andare’, del mio amato Ludovico Einaudi.
Che è mia, e solo mia.
Mai dovessi decidere ancora di condividerla, facciamolo però a Ground Zero, che è senza spazio e senza tempo. A Ground Zero, che è tutta la dimensione interiore che so assaporare e che nessuno mi può portare via. Che io l’avevo detto, che questo album dice difficoltà e angoscia. E che io non sono una per cui valga la pena di provare né l’una né l’altra.
Ho freddo. Perché c’è vento e non mi sono cambiata. Perché ho ancora addosso il mio vestito da bambola perfetta, quell’inutile orpello che trasporto ogni giorno con me per fingere di essere un’altra e non io. La bambola con la pelle di madreperla e il sorriso luminoso. Io.
Perduta. Dissolta. Io.
Io, che non lo sai chi sono, se non entri qui. Se non assaggi una lacrima, uno spavento, un grammo di angoscia.
Io, che faccio sentire solo il sole, e niente, niente della fottuta, infinita paura che ho.
‘Andare’ mi prende dentro la testa, me la buca. Suona come una melodia che viene da un altro tempo, da un’altra vita. E mi ricorda come sono e non so arrendermi ad essere: densa, intensa, profonda.
‘Smettila di essere così profonda’ diceva una voce cara stamattina. ‘Smettila, sei insopportabile, così profonda’. Già, peccato che non mi telefoneresti, se io non lo fossi, così profonda. Che non saprei cosa pensi prima che tu me lo dica, quando non me lo vuoi dire, mio amico caro. Peccato che a te serva, anche se a me non, che io sia così profonda. Sono nata così.
La luna si è spostata, nel cielo. La intravedo a stento dietro le mura di Ground Zero. Ci sono le mie unghie, troppo lunghe eppur bellissime. Ci sono i miei occhi, così sottili e pieni di emozione inutilmente repressa. Ci sono le mie lacrime, che le ho tenute così a lungo che adesso sgorgano libere come fossero acqua dalla fonte.
E il piano di ‘Andare’ mi trascina altrove. Lì dove se chiudi gli occhi c’è tutto quello che mi serve: il moto, l’inquietudine e la speranza, quella angosciata ma strenua, che urla che lei c’è ancora, strangolata in fondo al vaso di Pandora.
Urla che la felicità è di questo mondo.
Io non so cosa sia, la felicità, so solo cos’è la velocità.
Ma lo posso imparare. Tutto quello che non so, io lo posso imparare.
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