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Note in blu

*** da leggere ascoltando Eden Roc ***

Centoquaranta cavalli sotto al culo e Anna che guida sorridendo sulla Milano-Torino, chiacchiera, guarda lontano, mentre friggo sul sedile nervosa come una adolescente al primo appuntamento. Ascoltiamo una delle mie playlist stonate di musica scema da ballare, intorno a noi il cielo è terso e i prati del novarese verdi e splendenti come la primavera. La Golf corre e Google Maps dice che siamo vicine.

La Valle d’Aosta ci accoglie coi suoi colori vividi e forti, ma la morena del ghiacciaio non si vede perché il cielo si è scurito. Sopra di noi nuvoloni neri si assiepano arrabbiati, facendoci presumere che forse, dico forse, siamo vestite un po’ leggere. E chissenefrega.

All’uscita dell’autostrada, in men che non si dica, siamo in un posto davvero speciale per me: il paese prima di Bard si chiama Donnas, e dà il nome ad uno dei vini di cui mi sono innamorata quando la vita cominciava a scoppiarmi nelle ossa. Li vedo, alla mia destra, i vitigni di Nebbiolo Picotendro, arrampicati sul versante esposto a sud di questa che, come mi insegna la mia saggia socia, è una particolarissima valle orientata da est a ovest e che, come dico io, fa del gran vino. E qui ci sono due miei grandi amori, che mi fanno battere il cuore forte forte,  se già non fossi abbastanza eccitata: il Donnas e la Dora Baltea, che scorre quasi bianca, tra sassi e onde, su cui scendevo agghiacciata e piena di adrenalina esistenziale in quegli stessi giorni di quattro anni orsono e poi lo scorso luglio.

Bard è poco più avanti, e già dal parcheggio il forte si vede, sopra la nostra testa, arrampicato dietro agli alberi, in controluce sul cielo che diventa pericolosamente plumbeo.

Proviamo a salire dal parcheggio 2 verso il forte, ma non abbiamo le scarpe giuste e poco sotto di noi c’è una navetta che ci porta agli ascensori. E meno male che ad Anna è venuto in mente di prenderla, la navetta, perché in men che non si dica comincia a diluviare.

Piove, piove a catinelle acqua scrosciante, fredda e piena di vento. E per prendere quei quattro ascensori verso il paradiso non abbiamo altro riparo che una giacca di pelle che a stento ci copre i capelli e le spalle e alcuni lastroni di roccia sotto i quali acquattarci snodate, mentre aspettiamo il nostro turno.

Il cielo è sempre più nero, la pioggia sempre più fitta, ma in biglietteria ci dicono che il concerto si fa lo stesso, e così recuperiamo due enormi ponci rossi di plastica maleodorante con cui, eventualmente, cercare di coprirci.

Ma noi siamo fortunate, e mentre entriamo nella piazza delle armi la pioggia smette e il cielo, lentamente, si apre, schiudendo il blu crepuscolare sulle pareti avorio della fortezza.

Il palco è vuoto e scuro, illuminato solo da pallide luci violacee. Ci sono un grande pianoforte a coda ed una sedia. Null’altro.

L’attesa è breve, ma sembra eterna. Più volte, dalla platea gremita, si levano applausi di invito ad uscire sulla scena, ma nessuno si muove.

D’un tratto poi, nel buio incipiente, una voce calda che presenta lo spettacolo: Musicastelle in Blue 2012, signore e signori, stasera, per noi, Ludovico Einaudi e Paolo Fresu.

Mioddio, stento a credere di essere qui.

Sul palco salgono senza dire una parola, ci guardano, si inchinano e prendono posto.

Intorno il silenzio del pubblico freme, avvolgente. E la magia comincia così, nel silenzio più totale, con una nuvola scura nel cielo tra le torri del forte e le luci viola che illuminano dal basso, delicate, il palco.

Bastano tre note a riconoscerla, Uno.

Comincia inquieta tra i tasti neri e quelli bianchi e riempie l’aria di suoni lontani. E da ora in poi non c’è più niente da guardare, che non sia oltre, che non sia altrove, verso l’altra metà del cielo. Einaudi suona composto, quasi fuso con il suo pianoforte e quelle braccia lunghe nella giacca nera che confondono il confine tra le sue mani e la sua musica. Fresu siede a piedi nudi, con una sciarpa rossa attorno al collo, e imbraccia la sua tromba dorata, che poi cambierà, più volte, con un flicorno, maneggiando in modo quasi teatrale un amplificatore cui non so dare altro nome, che genera effetti sonori distorti, estesi e pieni di eco magiche e lontane.

Non c’è soluzione di continuità, non c’è un attimo di pausa. Tre pezzi, un applauso. Tre pezzi, un applauso. Nemmeno una parola.

In volo. Eccola qui. Ho i brividi. Il pianoforte scrolla il vento, incessante. Il flicorno riempie il cielo di suoni antichi e remoti. Poi sembra una percussione, e invece è l’anello di Fresu che segna il tempo del moto del volo sulla superficie di metallo del suo ottone che luccica d’argento. L’aria è densa di note ricche, vibranti e piene di emozione, intorno non si muove una foglia, e nessun pezzo è uguale all’originale: improvviseranno? Non credo: è tutto perfetto, e tutto diverso, e tutto meravigliosamente essenziale. Fresu si piega su se stesso, quasi in due, inclina il flicorno in basso, poi lo alza verso l’alto, sposta un ginocchio, si solleva, si siede. Einaudi non si muove quasi, intarsiato nelle note del suo piano nero, fuso nella sua musica, senza età, senza sorriso.

Chiudo gli occhi, poi li apro, e Anna, come me, ha il capo reclinato e i suoi lunghi capelli danzano nella musica, mossi dal vento freddo che stasera ci congelerà. Alzo lo sguardo e, sopra di noi, scomparsa la nuvola, si staglia luminoso nel cielo il Grande Carro.

Un minuto di pausa, solo uno. Intorno a noi un silenzio impressionante. Nemmeno un brusio si leva dalla platea, assorta nell’attesa del seguito.

Torna sul palco, solo, Ludovico.

E comincia a suonare.

Solo.

Dopo poco, alle mie spalle, sorge flebile il suono di un ottone.

Da dove viene?

Ci giriamo tutti, all’unisono, a cercare la provenienza delle note.

Da dove sia comparso non si sa, ma Paolo cammina lentissimo in mezzo al pubblico, lì dove le ali della platea si separano. Cammina verso il palco, come tra le acque spalancate del Mar Rosso, col suo flicorno tra le mani, e d’improvviso comincia “Andare”.

Registro, sì, perché ho promesso. Ma io sono altrove. Con gli occhi chiusi e la testa reclinata all’indietro, senza muovermi, senza respirare. Col guerriero maori dentro di me, come oggi pomeriggio, e l’anima tesa nel volo infinito dell’estasi.

Andare, stasera, mi suona addosso ancora più forte del solito.

Andare. Già. Dove? Adesso non importa, adesso sono qui. Con la mia grande amica seduta accanto, la mia musica nelle orecchie, e l’amore che pulsa nelle viscere.

Esplode, furioso, un applauso.

Il concerto ricomincia, prosegue, ed io il palco non lo vedo più.

Con gli occhi chiusi e le mani ghiacciate, sono volata via, dove non c’è tempo, non ci sono confini alle possibilità, non c’è paura.

L’ultimo pezzo strappa l’anima di Anna. Melodia Africana, su cui mi sono innamorata di Ludovico, otto anni fa, sembra non finire mai. Il flicorno fa la seconda voce al piano, poi si riallinea e suonano assieme, e questa armonia calda e intensa ci alleggerisce ancora e ci eleva alte al cielo, con gli occhi chiusi e lo spirito nel vento freddo. I tasti del piano di Einaudi suonano più lenti, le dita di Fresu battono il tempo sul metallo, la melodia torna e ritorna, come le onde del mare, fino a spegnersi leggera nell’aria, con una lunga, lunghissima nota di solo fiato che si allontana leggera nel cielo.

Un altro applauso. Scrosciante. Estatico.

Standing ovation.

Tornate sul palco, tornate.

E vi prego, suonate Eden Roc.

E come nel più bello dei sogni, quelli che non si avverano mai, eccola qui, proprio Eden Roc. Lo so, che sta per finire. Ma non poteva finire meglio di così.

Ho gli occhi chiusi, la pelle d’oca, le guance rigate da due lacrime grosse e caldissime, come le note di Fresu, che non ve le so raccontare.

Li amavo tutti e due, sì, ma quando ho scovato, alla ricerca di un regalo speciale, questo pezzo suonato assieme, live, sei anni fa, ho capito che l’amore esiste davvero e che davvero la musica è l’unica arte che può raccontarlo.

Una piccola percussione fatta solo di polpastrelli e anelli, le lunghe dita sui tasti del piano, l’ottone che suona e si rincorre, amplificato, regalandosi la seconda voce da sé. Il climax ascendente della melodia mi trascina l’anima fuori dai confini del corpo e la strappa dai dubbi e dalle buie cose terrene fino ad esplodere, con gli occhi lucidi e le braccia al cielo, applaudendo come se nelle dita avessi la voce.

Un’ora e quaranta minuti di musica e emozione, con le farfalle nel cielo nero, vicine al Grande Carro, in una spettacolare cornice di arte e storia, fra diecimila note in blu.

L’avevo detto io, che questo era il più bel regalo che avessi mai ricevuto.

1 commento su “Note in blu”

  1. al solito, e stavolta ancor di più, le tue parole mi entrano dentro, percorrono i piani inclinati della mia anima e mi proiettano lassù, dove sento le note vibrare… grazie, Chiara

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