Vai al contenuto

To the States

Leaving for Boston

Ciao lettori cari,

parto tra tre ore alla volta di Boston e vado a stringere forte forte la mia Sisa.

Per chi ha voglia di accompagnarmi nel viaggio, cercherò di tenere un buon diario tra qui e facebook, come quella volta da Praga, per chi se lo ricorda…

Poi i post li sistemo quando torno, e se magari mi dite anche cosa vi piace di più, ci lavoro volentieri.

Un abbraccio a tutti,

Chi

Somewhere over the clouds

In volo, 11 dicembre 2010, ore 22.50 (GMT 0)

Volo seduta su questo autobus del cielo, stipato di persone che si stanno addormentando, e non siamo neanche a metà del viaggio.

Vengo da una lunga notte insonne, e potrei dire che l’ho fatto apposta per minimizzare il jet lag. Invece ho parlato, scritto, pensato, ricordato, certamente amato.

Alzarsi e mettere tutto in valigia, dire ciao, rimanere in coda per i lavori in Viale delle Industrie, arrivare quaranta minuti in ritardo al check-in, salutare dal cielo quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno… tutto è stato questione di un attimo.

Mi sono addormentata e svegliata a Londra.

Mai stata ad Heatrow, prima. Figuriamoci al Terminal 5. Che aeroporto. Che organizzazione. E quante luci! In pochi minuti ci siamo trovati bombardati di informazioni, cartelli da seguire, tentazioni da comprare. Più o meno anche il tempo è volato, tra la ricarica del nostro bancomat caricato in pounds convertiti in dollari, un caffè ustionante prima dell’imbarco e una gita alla toilette (per scoprire che viviamo davvero in un paese poco civile).

Adesso sono qui, stordita da troppa emozione, nel cuore i sorrisi di chi mi ha detto “ciao”, la voglia di abbracciare Stefania, la curiosità di vedere il nuovo mondo. Nuovo davvero.

Alla mia sinistra, fuori dal finestrino, uno spicchio di luna brillante sorride nella notte nera, da qualche parte, sopra l’oceano e le nuvole.

First night in Boston

Boston, 12 dicembre 2010, ore 7:59 (GMT -5)

Mi dicono che sono jet lagged e che questa è la ragione per cui sono in piedi così presto. Sarò anche jet lagged… sicuramente sono trepidante e questo fatto, combinato all’insonna, non aiuta.

Il volo è arrivato in orario ma per uscire dall’aeroporto ci è voluta un’ora, non tanto per i bagagli quanto per superare l’immigrazione. “How long are you staying?”. “Fifteen days”. “Vacation?”. “Yes”. “Ok, put four fingers of your right hand there…”. E via, impronte digitali di tutte e dieci le dita, foto, sorriso per la stampa e finalmente fuori, sul suolo americano.

La mia Sisa aveva profetizzato che ci avrebbe messi a letto appena arrivati a casa, ma… tra una fetta di crudo e un po’ di formaggio, abbiamo festeggiato la mezzanotte. Ucciso una bottiglia di rosso, una di Cava, una di Porto e anche il whiskey alla fine non se la passava tanto bene.

All’una di notte, dopo che Stefania ed io ci siamo rotolate sul divano esibendoci in un clamoroso duetto su “Cara ti amo” e il dottor Stranamore è crollato sul posto, siamo andati a dormire.

La prima che si è svegliata sono io, infatti, mi dicono che sono jet lagged .Adesso che ci faccio caso e tolgo le auricolari dall’Iphone sento che gli altri si stanno alzando ed entro breve sarà “time to go”, next stop: Kittery, Maine, a cercare i fari e le aragoste.

Lobsters and lighthouses

Boston, 12 dicembre 2010, ore 20.50 (GMT -5)

Risveglio. Doccia. Colazione sul tavolo di legno con un gallone di succo d’arancia, il cappuccino della Ste e la marmellata di fragole fatta in casa. Make up e Audi watching.

Partenza sull’Honda Civic, verso il Nord. Route 1, destinazione Kittery Point, Maine.

Lungo la strada, Revere Beach, e dei coraggiosissimi kiters che sfidano freddo e vento e volano coi loro aquiloni sul mare d’inverno. Tutto questo è “very New England”.

Tra le curve di questa strada larga, nei boschi, una Clam Box. Sosta ad assaggiare le “vongole” fritte e poi di nuovo in macchina.

Piove, è freddo. Non molto, ma basta. Il faro non si trova.

Allora, sono le due: pranzo da Warren’s Lobster. Best place in Maine to have Lobsters. Aragosta e birra.

Vento freddo. Bandiera a stelle e strisce che sventola. Pioggia. Luce che scende. Il faro dov’è?

Il faro è laggiù, il vento tira furioso, e fa un freddo cane. Ma che bello: l’oceano d’inverno, le onde, la spuma, la pioggia battente.

Boston Common e The Freedom Trail

Boston, 13 dicembre 2010, ore 20:50 (GMT -5)

Un raggio di sole. Abbastanza per mettere in miei UGG, dopo tutta la pioggia di ieri.

Abbastanza per dire “Ok, today we go and follow the Freedom Trail”.

C’è da camminare e forse abbiamo sbagliato strada: cosa diavolo ci facciamo al Portorican Project anzichè su Washington St? Se l’indicazione di Josè era chiarissima: right-right, noi, precisi come due orologi, abbiamo svoltato left-left.

Una scolaresca va al parco giochi: una maestra in cima ed una in fondo con due carrozzine-carro che portano quattro bambini ciascuna. I piccoli più grandi, nel mezzo, camminano in fila indiana tenendo una fune che li guida.

Vediamo un po’ di casette New England style, e sarà pure il quartiere cinese ma sembra di stare in una puntata di Ally McBeal, anche se non nevica (ancora).

Cammina cammina, eccoci in Boston Common. Ed ecco gli scoiattoli. Che tra un po’ ci camminano anche sui piedi: uno mi si è addirittura arrampicato addosso.

Passiamo un’ora a passeggiare in Boston Common, il parco pubblico più antico della nazione, vediamo il Frog’s pond ghiacciato e pensare di pattinarci sopra è davvero emozionante.

Verde. Oro. Vento freddo. Goccia di pioggia. Cupola d’oro del Massachussets State House. E la città che piano piano si solleva, tra grattacieli e luci natalizie, mentre seguiamo a piedi la traccia rossa del sentiero della libertà.

dio mio, che freddo!

Boston, 14 dicembre 2010, ore 18.15 (GMT -5)

Oggi fa un freddo impossibile, nonostante il raggio di sole che ha baciato l’harbour a North End, stamattina.

Da quelle parti la città vive un profumo particolare, di immigrazione e storia, Irish pubs e negozi italiani. E non sembra proprio di essere in Italia, ma in uno di quei film d’amore e mafia, con dei personaggi che sembrano caricature di vecchi siciliani che parlano un po’ inglese e un po’ dialetto.

Un raggio di sole ci raggiunge mentre beviamo un caffè da Starbucks e ci permette di arrivare fino all’Harbour e poi di andare a vedere la Old North Church, dove a suo tempo il patriota Paul Revere ha appeso due lanterne, per avvisare Concord e Lexington dell’arrivo delle truppe inglesi dal mare.

Eh sì, perchè questi americani sono davvero patriottici e trasformano ogni attimo della loro storia in un evento da celebrare.

Coraggiosi come due minatori decidiamo di andare a piedi a Beacon Hill, ma non abbiamo realizzato che se la temperatura è in gradi Farenheit e non Celsius, qui fa davvero un freddo cane. E quindi Beacon Hill la passeggiamo intirizziti, tra le casette rosse di mattoni e le decorazioni natalizie, salite e discese che forse sono impegnative o forse sono io che sono congelata, fiocchi rossi sui lampioni a forma di lanterna.

Pranzo in un ristorante di cucina tipica persiana, a leggere le pagine dei giornali italiani per capire cosa diavolo sia successo tra tafferugli, minacce di guerra civile e governi che non cadono.

Poi, con il freddo che incalza e il vento che batte gelido, ci infiliamo a Newbury e ci perdiamo tra le luci e i negozi (e qui l’unica cosa che davvero può appagare è la sequenza di foto dei negozi, da Cartier ad Armani, Chanel, Burberry e via dicendo…). I negozi si fanno meno celebri e costosi, la via più rossa e illuminata, e spuntano caffè e gallerie d’arte. Newbury brulica di persone intabbarrate nei loro cappotti e giacconi e i miei guanti non scaldano più (e quindi me ne compro un paio di nuovo di zecca, da The North Face, con l’indice e il medio che permettono di utilizzare pc e smarthphones touch screen. Quanto mi sento cool!).

Alle quattro e mezza siamo già a casa, congelati, dopo sei ore di cammino, e l’unica soluzione per ristorarsi sono una doccia, il Guscio, e il divanodivino di questa adorabile casina del South End.

da Cambridge a Whole Foods!

Boston, 16 dicembre 2010, ore 12.00 (GTM -5)

Ieri è stata una giornata troppo lunga e densa di chiacchiere per postare un diario. Oggi la tranquillità della casa prima della partenza per DC, invece, ben si concilia con un po’ di riposo sul Guscio.

Fa sempre un freddo boia, e anche se mi dite che a Milano c’è -3, non potete immaginare il 20 F a mezzogiorno, che sarebbe circa -6 coi gradi Celsius, con il sole che splende e un vento gelido che taglia la faccia.

Saliamo sul bus 1, direzione Harvard Sq, e la fermata non te la puoi sbagliare. Il tempio del sapere ha un’entrata davvero imponente: 77 Massachussets Av. Sede del MIT. Sarebbe stupefacente stare lì davanti a gironzolare, guardando questi studenti un po’ strani, alcuni che camminano con la felpa, gli shorts e l’infradito. Proviamo a fare un giro per il campus, ma il freddo è insopportabile: le dita si congelano nei guanti, le gambe dentro i jeans chiedono un altro paio di pantaloni.  E allora risaliamo sulla 1, due tap con la nostra Charlie Card, e andiamo verso Harvard (come se lì fosse più caldo). Mi vengono un po’ i brividi a passeggiare dentro Harvard Yard, non so bene se sono in un film o in un sogno che potrei aver fatto secoli fa. Mi ricordo scene che ho visto, libri che ho letto, idee che ho avuto (e che come la brava sorella maggiore di Alice, non ho seguito).

Troppo freddo, decisamente. E quindi andiamo a ristorarci un po’: Big Burger and lager rossa di Boston, la Samuel Adams, alla Pizzeria Uno di Harvard Sq., per riprendere le forze.

Nel pomeriggio un’idea folle che mi è venuta improvvisamente ci trascina lungo Mass Ave, a piedi, da Harvard al MIT di nuovo: MIT Musem. Shall we go and see robots and holograms? Nevermind we are simply freezing.

Il museo del MITè davvero affascinante, ciliegina sulla torta la maglietta blu che non ho comprato (perchè non c’era la mia taglia): “Ho un amico immaginario: √-1”.

Al piano di sotto ci sono le ricerche attuali, dai videogames alla creazione di social network che generino cooperazione (nel senso della teoria dei giochi) per la protezione dell’ambiente, fino ai virus che costruiscono i poli positivi e negativi delle batterie al Litio.

Al piano di sopra ci sono le cose che hanno già inventato da tempo: la Polaroid, con una gigantografia di Lady Gaga realizzata con questa tecnologia, le protesi meccaniche per la ricostruzione di braccia e ginocchia, il robot di Corto Circuito, e questi favolosi ologrammi che ti seguono con lo sguardo e ti mandano un bacio dal muro, a metà tra la Gioconda e una immagine di Harry Potter. La nostra escursione nel museo del MIT dura circa due ore, poi rieccoci nel freddo polare, direzione Copley: biggest shopping place in Boston.

Per arrivarci prendiamo la metro: ed è un gran casino lì sotto. Stavolta non posso raccontarvi che è pulita, che è ordinata, e forse nemmeno che è efficiente, ma ci porta dove dovremmo e non siamo esposti alle intemperie, quindi va bene!

Da Copley raggiungiamo Stefania, annegando tra milioni di negozi e luci e profumi di cibo. Caffè da Starbucks, confidenze e promesse, e poi verso casa a preparare la cena. Andiamo a fare la spesa da Whole Foods, e rimaniamo con gli occhi spalancati ed increduli davanti allo spettacolo del supermercato biologico più grande che io abbia mai visto. Whole Foods è enorme, pulito, profuma. Il cibo è riposto in ordine sugli scaffali, la frutta è lucida, la carne rossa, e ti fanno assaggiare il salmone affumicato per valutare se comprarlo.

Ceniamo tra poco, aperitivo con tequila e cena con pinot nero, Troy che scorre in televisione e Mr Wagner che ci racconta di Stefania durante i loro anni a Chicago. Passiamo una bellissima serata e per questo siamo con il cuore gonfio e l’emozione a mille: destinazione Washington DC.

moving to DC

Washington DC, 17 dicembre 2010, ore 09.35 (GMT -5)

Snowing on DC, no flights on Reagan Airport…
E quindi anziché decollare alle quattro, dopo una corsa in auto con Stefania, leggermente upset per l’assenza del principino e per il Sauvignon Blanc neozelandese che ha accompagnato il nostro favoloso sushi lunch, alle sette siamo ancora accampati a Logan a cercare di capire se partiremo o no.
Ci cambiano per la terza volta operatore del volo e ci fanno atterrare a Dulles anziché a Reagan (che è come dire che anziché arrivare a Linate si va ad Orio). Ci fregano 190 bugs tra oversize del bagaglio e altre amenità, più la corsa in taxi per arrivare all’albergo, ma alle 19.50 decolliamo da Logan alla volta della grande capitale.
Arriviamo distrutti, un bagaglio non si trova, la strada è ghiacciata, il taxi non arriva, dobbiamo fare 26 miglia… eppure quando si intravede da lontano l’obelisco illuminato nella notte e le insegne dei locali in Dupont Circle, tutto acquista un senso.
E così, come due sacchi di patate, crolliamo sul letto alle undici e mezza, dopo una doccia ristoratrice e una spalmata di crema idratante (qui la pelle si secca da morire col freddo, e poi si crepa e poi vi lascio immaginare).
E meno male che abbiamo fatto il viaggio della speranza! Stamattina in DC splende un sole bianco sulla neve, non fa neanche tanto freddo, e dalle finestre del nostro albergo si può immaginare tutta la città.

verso e oltre la Casa Bianca

Washington DC, 17 dicembre 2010, ore 19.15 (GMT -5)

Temendo che faccia troppo freddo non siamo sicuri di camminare tanto, ma ci proviamo. E infatti non fa molto freddo, e poi due croissant al burro di Starbucks danno abbastanza carburante per andare verso Foggy Bottom.
Ad un certo punto il lungo e trafficato viale sul quale stiamo camminando termina in una piazza silenziosa e innevata, con un grande parco in mezzo, e di nuovo: scoiattoli! E come sono socievoli! Siamo in Lafayette Square, e la vista si annega a perdita d’occhio tra la neve e i rami degli alberi scuri che si annodano contro il cielo azzurro.
Ma cosa sarà quell’edificio laggiù? Beh, se guardate la sequenza delle fotografie proverete assieme a noi l’emozione di scoprire, cercando di capire a cosa corrisponda quella “casa bianca”, che in effetti è l’entrata ufficiale della Casa Bianca! O almeno, quello che si trova in Pennsylvania Av 1600: l’indirizzo più famoso d’America, come dicono loro.  Dobbiamo camminare molto per girare intorno all’enorme recinzione ed arrivare lì davanti. Nel frattempo il sole è alto, la neve riluce spaventosamente, ci nascondiamo dietro gli occhiali da sole e perdiamo lo sguardo nell’immensità che c’è intorno a noi. La Casa Bianca la guardi, e anche se l’hai vista cento volte in TV non ci credi, che sei lì davanti, specie quando arrivano un numero imprecisato di macchine della polizia con sirene spiegate e dodici SUV neri… e se lì dentro ci fosse davvero Barack Obama?
Lasciare la zona è difficile, se pensi che rischi di non tornarci mai più. In cielo vola un gabbiano (o qualcosa che ci somiglia). Tra gli alberi nei giardini presidenziali ci sono uccellini che volano e scoiattoli che scorrazzano liberamente. Ma dietro di noi c’è il Washington Monument, quell’obelisco così alto che non ci sta nell’obiettivo della macchina, e poi c’è tutto questo sole…
Quindi, ci incamminiamo verso il centro del National Mall, in cima alla collinetta dell’obelisco.  Da lì la vista è impressionante: il Lincoln Memorial a destra, il Campidoglio a sinistra. Cinquanta bandiere a stelle e strisce che sventolano nel cielo azzurro (le abbiamo contate palo per palo), un toccante monumento ai caduti della seconda guerra mondiale: Here we mark the price of freedom.
Da adesso in poi la nostra giornata è con il naso su, a guardare gli edifici che si stagliano bianchi ed imponenti nel cielo terso e luminoso, a leggere e sentire risuonare nell’aria parole come “libertà, uguaglianza, opportunità”. Poi non chiedetemi come faccio a tornare in Italia e pensare che anche la nostra classe politica parla invece di “calcio, figa e motori”.
C’è il bacino creato dal Potomac ghiacciato, il Jefferson Memorial in lontananza, con la sua cupola tonda sull’acqua.
C’è che è l’una e cominciamo ad avere fame. Seguiamo il saggio consiglio della Lonely Planet e andiamo a mangiare cucina tipica dei nativi americani. Non importa che questo comporti l’attraversamento dell’intero National Mall e circa un’altra ora di cammino. Oggi mangiamo Chili di bufalo e hamburger di bufalo e anatra, bevendo birra messicana. Cosa chiedere di più?
Un giro al museo nazionale dei Native Americans, con i suoi effluvi di sterminio e memoria, e questa musica di sottofondo che fa andare il cuore lontano, al Grande Spirito e alla Terra. Passeggiamo lungo il Mall, guardando da lontano lo Smithsonian che sembra un castello (e io mi sento un po’ un personaggio dell’ultimo libro di Dan Browne). Attraversiamo il giardino della Galleria Nazionale delle Arti, in cui un albero di metallo slancia i suoi rami brillanti di luce e acciaio e neve nell’aria, mentre gli scoiattoli ci tagliano la strada e qualcuno alla nostra destra pattina sul ghiaccio.
Poi, stanchi ma senza pietà, facciamo anche un giro al museo nazionale di Storia Naturale. Sì, proprio quello lì con l’elefante nella Rotunda centrale. Quello del film di Ben Stiller. Ci sono i dinosauri, il mio amico T-Rex soprattutto, i segreti dell’oceano, un’intera sezione dedicata ai mammiferi in cui cammini tra le bestie e senti i suoni della savana o della foresta pluviale. Poi c’è il diamante Hope, che non ci credi per quanto è bello (e grosso). E non è il Cuore dell’Oceano di Titanic, per chi (come me, ehehe) se lo fosse chiesto.
Il museo sta chiudendo, noi siamo stanchi morti. Ma come non andare a guardare ancora una volta la Casa Bianca nella sua versione crepuscolare? E così, camminiamo un’altra ora all’indietro, ma non come i gamberi. Perché avere l’occasione di rivedere, come rileggere, è un modo per imprimere l’emozione nel cuore.
Adesso stranamore pisola, Withney Houston suona dalla docking station per Iphone, io rileggo questo post di Guscio e carico le fotografie su Facebook, proprio per riassaporare tutta la giornata, dalla luce del sole al sapore acre e salato del bufalo, dal senso di immensità che si prova in mezzo a tutto questo spazio al desiderio di lavorare per la libertà degli altri che ti viene passando di qua.

Law & History

Washington DC, 18 dicembre 2010, ore 16:25 (GMT -5)

“Amo, abbiamo un giorno solo e troppe cose da vedere, come facciamo?”

“Prendo la mappa.”

“Amo, ma se non hai letto la guida a che ti serve la mappa?”

“Stordita, l’hai letta tu, la guida”.

Ah, è vero.

E così, mentre consumiamo un brunch alle dieci di mattina da Kramerbooks & afterwards in Dupont Circle, decidiamo che camminare non ci spaventa neanche oggi. “Ma andiamo a vedere anche la Union Station?”. “Boh”. “La Lonely lo consiglia, ma è solo una stazione. Toh, guarda una foto”. “Azz, eh sì che andiamo a vederla allora”.

Per arrivare a Union Station camminiamo un’ora lungo Mass Ave, con il marciapiede ghiacciato e una temperatura poco accogliente. Intorno a noi ci sono aiuole con cavolfiori bianchi e viola, sedi di ambasciate, poi palazzoni, incroci sempre più grandi, ad un certo punto forse addirittura una autostrada. Finalmente, dopo il museo nazionale delle poste, che è grande come il Tribunale di Milano, ecco la stazione.

Cazzo, ma questa non è “solo una stazione”. A parte questo incantevole soffitto di esagoni dorati (ma sono esagoni??), la Union Station è un tripudio di luci natalizie, negozi invitanti, scale di legno lucido scuro che salgono verso le biglietterie o scendono verso i fast food. C’è il wi-fi e i bagni sono pulitissimi. Meno male che siamo venuti.

Il giorno è grigio, fa anche un po’ freddo, in più i Jeckerson ieri mi hanno irritato le gambe e oggi faccio la gazzella coi leggins. E con la temperatura che si abbassa lasciamo la statua di Cristoforo Colombo e andiamo verso il cuore della legge: a Capitol Hill c’è il Campidoglio (che poi è il palazzo del Congresso), la Corte Suprema e la Biblioteca (del Congresso), con cartelli ovunque che celebrano con fasto i luoghi e gli edifici della legge e della giustizia.

Leggeri e sconsiderati decidiamo di entrare al Campidoglio: e quindi via, un’altra ispezione di abiti e bagaglio, in pieno stile aeroportuale, compresa la cintura e la perquisizione col metal detector. Per fortuna non ho dovuto togliere anche gli stivali. La visita al palazzo del Congresso ci insegna con chiarezza e semplicità i fondamenti del diritto costituzionale statunitense e marca forte il punto della separazione dei poteri e della superiorità della legge sugli uomini. Stai fermo lì, leggi, e quasi quasi ci credi, che è vero. Del Campidoglio sono impressionanti anche i bagni, oltre a quel gigantesco cupolone bianco che San Pietro ” se lo magna per colazione”.

Colonna, bandiera, poliziotto, colonna, bandiera, piscina ghiacciata, scoiattolo, neve. Ecco, in poche parole, il National Mall. Oggi il cielo è proprio plumbeo e fa freddo: dobbiamo rifugiarci per forza al chiuso. E allora andiamo all’archivio di stato. E a parte che ho visto la Magna Charta, la Dichiarazione di Indipendenza, la Costituzione degli Stati Uniti d’America e la Carta dei Diritti, sono rimasta fulminata da questo posto.

Ci sono documenti storici originali esposti nelle loro belle teche e riproduzioni digitalizzate con cui si può interagire, registrazioni audio, lettere di Presidenti, messaggi telegrafati di Lincoln, microfilms storici, pellicole originali dello sbarco in Normandia. E tutto spiegato nitido e chiaro, così com’è, come sul Katz & Rosen.

Allora, io mi chiedo:

o questo è un museo per bambini

o gli americani sono tutti deficienti

oppure siamo noi che non abbiamo ancora capito che sapere e cultura non sono per forza sinonimi di noioso e difficile e contrari di diffuso e accessibile.

Ma forse ero in un museo per bambini, e non al National Archives of the United States of America.

Chinatown in DC

Washington DC, 18 dicembre 2010, pre 18.55 (GMT -5)

Ci siamo passati per caso, tornando in albergo.

Una passeggiata un po’ lunga, la settima strada ci sembrava illuminata e l’abbiamo presa e, come per magia, eccoci a Chinatown!

Persone in strada, strani odori di cibo fritto, luci di negozi, alberi ricoperti di luminarie natalizie. Ad un incrocio, un enorme entrata di tempo multicolore con dragoni che svolazzano e rosso e giallo dappertutto. L’insegna di MC Donald’s in ideogrammi. Anche quella di Starbucks!

Oddio, anche i cartelli coi nomi delle strade. Chinatown è proprio un’altra città. Con un grosso pullman fermo all’angolo di una piazza, che scarica valigie e passeggeri e lascia intendere che se lo prendi sono 20 dollari e cinque ore di follia in supervelocità, e sei a New York.

Per foruna noi ci andiamo con l’aereo, domani, anche se è prevista neve…

jazz in DC

Washington DC, 19 dicembre 2010, ore 00:50 (GMT -5)

Sulle labbra ho ancora il sapore della cena: tonno, aglio, sorbetto di mango e le bollicine del Cava.

Sulle dita il freddo di questa città, che rimane imperterrito anche su questa sedia di metallo.

Intorno, muri di mattoni, luci soffuse, un senso di rosso scuro e di oro.

Nelle orecchie, questa jazzband. Suonano caldo, nero, divertente. Un pianista cieco, un bassista altissimo, un cantante grosso come la donna cannone, e questa voce profonda e sexy che si mangia Mario Biondi.

Jazzclub HR-57, Washington DC.

Grazie Silvia.

just a few words

New York City, 19 dicembre 2010, ore 23.45 (GMT -5)

Brunch da Kramerbooks & afterwords. Sono così istupidita dalla situazione che sbaglio aeroporto. Non gate, non imbarco: aeroporto.

Viaggio in taxi abusivo con autista originario della Giordania ma nato in America, musulmano, che mi spiega perchè certe donne sono più libere e rispettate di me.

Volo su un piccolo aereo ad elica, come quello con cui siamo andate a Budapest. Maria ed io  Meno male, stavolta dormivo.

Arriviamo nella Grande Mela. E qui le parole in ordine sono finite.

Luci. Grattecieli. Luci. Rosso, giallo, blu, su sfondo nero. Cartelloni pubblicitari. Alberi di Natale. Semafori che non diventano mai bianchi (walk). Un concierge nero e gay, ma gentilissimo. Un albergo costosissimo con camera microscopica.

Una camminata verso la metropolitana e, di colpo, per caso, Times Square.

Quinto Quarto, 14 Bedford St. Carciofi in insalata, straccetti di manzo, vino toscano, e anche l’amaro del capo. Altrimenti, stasera, con tutti questi input, addirittura io potrei impazzire.

E, prima di dormire, cinque minuti di Grey’s Anatomy, guardando il dottor stranamore, quello vero.

monday morning in NYC

New York City, 20 dicembre 2010, ore 20.05 (GMT -5)

Mi sento un po’ arrostita, dal freddo. Ascolto il canale Mellow Jazz su jazzradio.com, ho la pelle del viso viola per quanto taglia l’aria questo vento e le gambe ghiacciate anche se è un’ora che sono in albergo. Ho messo in ordine e pubblicato su Facebook le foto, e tutto quello che posso dire è che questa giornata è stata troppo piena di cose per metterle tutte assieme.

Intanto, New York stordisce. E’ come un pugno in faccia, una doccia gelata: ti senti stupido. Ci sono troppe luci, troppi rumori, troppi veicoli, troppe persone sui marciapiedi. Troppi colori di pelle e accenti diversi, troppi negozi, troppi posti in cui mangiare, troppi piani per ogni grattacielo. Chissà quanto ci vuole, ad abituarsi, a selezionare, nella confusione, solo le informazioni che ti interessano.

Stamattina la colazione è consigliata da Stefania: “le pain quotidien”, all’incrocio tra 57th St e 7th Av (in un telefilm, direbbero che siamo tra la cinquantasettesima e la settima). E finalmente mangio un po’ di frutta: da queste parti le vitamine scarseggiano, se non sono sintetiche.

C’è il sole, e quindi via di corsa a prendere la metropolitana, ad un angolo di Central Park, per andare a Brooklyn. C’è il sole ma è mezzogiorno e ci sono 32F (zero celsius!) mentre attraversiamo lo storico ponte che collega Brooklyn a Manhattan.

La cosa più strana che ho visto è l’immensità dei messaggi della WatchTower, che quasi quasi mi prendo paura. Per fortuna poco dopo il mio sguardo rimane catturato dal ponte, e anche le mie vertigini ci si mettono, e quindi cammino verso l’East River. Wow, sembra un film. Ci sono i cavi del ponte, le macchine che sfrecciano sotto di noi alla faccia del limite di 30 miglia all’ora, il vento freddo che ci sbatte in faccia, lo skyline di lower Manhattan davanti, e quel senso di vuoto che poi si capisce bene cos’è: dove sono le twin towers?

Ieri sera Giovanni, il cameriere di Quinto Quarto, ci aveva avvisati, ma noi pensavamo di essere più furbi, e invece eccola lì, a tradimento, alla nostra sinistra: la statua della Libertà. E’ piccola e c’è anche un po’ di foschia, e forse neanche si vede bene nelle foto, ma l’emozione che si prova è un tuffo al cuore. Forte, improvviso, difficile da gestire. Che se poi ti scende una lacrimuccia ti si congela sul viso.

L’attraversamento del ponte dura una mezz’oretta (credo), con gli occhi che si perdono tra le chiatte sull’East River, la vista del Manhattan Bridge poco più in là, la vecchia Brooklyn marrone alle spalle e questo sbarluccicare di vetri di grattacielo che riflettono la luce bianchissima del sole.

Quando arriviamo giù dal ponte siamo congelati, ma prima di infilarci da Starbucks a cercare un posto dove scaldarci e fare pipì non possiamo non fermarci nel meraviglioso giardino di City Hall. Un parco pubblico con la wi-fi zone gratuita. Una fontana, dei lampioni in stile veneziano con una fiammella che brucia dentro, un’aiuola colorata di tinte invernali, dall’amaranto all’indaco, il municipio sullo sfondo e il caos della città che ci circonda.

E poi, di sorpresa, quattro amici, che se li guardi sotto i cappotti capisci che due sono sposi coi loro testimoni, che vengono a farsi le foto davanti alla fontana e sorridono.

Ground Zero

New York City, 20 dicembre 2010, ore 20.25 (GMT -5)

Non che ci sia molto da dire. Nonostante il rumore, la folla, i construction workers che lavorano, i poliziotti, il WTC visitors center, i veicoli, le strade vicino, Ground Zero fa impressione.

Silenzio. Ecco cosa ti viene da fare. Stare in silenzio.

Poi entri nel centro commemorativo, guardi le foto, leggi i messaggi e anche se tutto questo è molto meno di quello che ci racconta un luogo della memoria della nostra povera vecchia Europa massacrata dai nazisti, ecco, stai qui. Fermo. E sarà l’intensità delle parole, la forza delle immagini, la memoria di quel pomeriggio (per noi), ma non si può che piangere, in silenzio, la lista spaventosa di quei nomi scritti in grigio su una lapide bianca alla parete, e le immagini di tutti quelli che ancora risultano ‘missing’.

il Financial District e la ricerca della felicità

New York City, 20 dicembre 2010, ore 20.30 (GMT -5)

Per riprendersi, dopo Ground Zero, ci vogliono un New York Burger e una Sam Adams. Già va meglio. Usciamo nella New York crepuscolare, a ciondolare per lower Manhattan, travolti dalle luci e dalla confusione del distretto finanziario della città. Che casino, quanta gente, quanta gente che corre, soprattutto. C’è il toro, le luci di Natale, una sede di Intesa San Paolo (pure qui??). C’è il Trump building, grattacieli e bandiere a perdita d’occhio, e poi c’è il famoso e blindatissimo New York Stock Exchange.

In mezzo a tutta questa confusione, attraversata Broadway, una chiesetta, laggiù. Trinity Church ci accoglie, semplice e calda, e io mi siedo lì e rimetto a posto un po’ di cose nella testa e nel cuore, poi di nuovo fuori, con questo freddo cane, a prendere la metro.

Ripassare in City Hall e guardare la luna piena nel cielo che è ancora più luminosa delle cime dei grattacieli (thanks God), scendere in metropolitana e rimanere a bocca aperta a sentire una jazz band che suona gioiosa in una zona di passaggio, e sembra di essere in quella scena degli Aristogatti in cui Romeo & co. cantano “Tutti quanti vogliono fare il jazz”.

E dopo tutto questo, per un secondo, mi scappa l’occhio su un’immagine che conosco. Una porta, vicino ai binari. Una porta dei bagni, quelli della metropolitana. Quella dietro cui dorme Will Smith, con il suo piccolo, in “La ricerca della felicità” di Muccino.

E qui mi va di raccontarvi una cosa che ho scoperto a Washington all’archivio di stato: è nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America che c’è scritta questa cosa, che trovo disperatamente commovente, se penso alle contraddizioni che ho visto in questi pochi giorni:

“We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness.”

quattro passi a Greenwich village

New York City, 22 dicembre 2010, ore 20.05 (GMT -5)

Per la nostra seconda serata a NYC scegliamo una tappa obbligata: Greenwich Village. Metropolitana, 6 fermate, ed eccoci qua, nel quartiere più fricchettone della città, come direbbe Gabriele. Siccome non abbiamo fame, passeggiamo per un’oretta, in questo brulicare di persone sui marciapiedi e di piccole insegne di locali che ci invitano ad entrare. Casette basse, negozi strani, locali ancora più strani tra cui un “sushi shabu shabu”, che incuriosirebbe chiunque. Spunta laggiù, inconfondibile, il Blue Note, il tempio del jazz. Ed io vorrei davvero davvero tanto andarci. Ma non oggi.

Ci viene fame e dopo aver camminato a lungo, perchè trovare un posto come diciamo noi non è mai facile, siamo di nuovo arrostiti dal vento ferocemente freddo, e cominciamo sinceramente a pensare di non essere abbastanza freak per questo posto quando, impensabilmente, ecco la soluzione.

Un ristorante tutto arancione, che si chiama Sambasushi. E così pasteggiamo a pesce crudo con condimento brasiliano (e Sauvignon Blanc della Nuova Zelanda, che ormai ci siamo affezionati). La cena è deliziosa, particolare, e astronomicamente costosa. La chicca sono i nostri commensali. Attorno a noi quattro coppie: due tipicamente europei che bevono Martini,stanno avvinghiati sul tavolo, e se ne vanno dopo poco. Due neri, un po’ troppo grassi per stare dietro al tavolo, vestiti sportivi e che parlano poco. Due nel posto sbagliato, direi. Una coppia gay di ragazzoni decisamente robusti che siedono vicino a noi e poco lontano altri due bianchi, lei vistosamente bionda, lui terribilmente nerd. E mentre ci alziamo per andare via, la bionda si salva la serata coinvolgendo in un ultimo cocktail i due gay, e così scopriamo che sono un greco e un portoricano, che lo sfigato è francese e che la biondona è americana (ed è altamente probabile che se li porterà a letto tutti e tre!).

Di ritorno, tante foto alla metropolitana, a chi ci lavora di notte, e all’ultima coppietta della serata che forse forse si è scambiata il primo bacio proprio seduta davanti a noi.

escursione gelida in barca

New York City, 22 dicembre 2010, ore 20.35 (GMT -5)

Ieri era davvero un’altra splendida giornata di sole. Con meno tre gradi, ma sempre di sole. E allora siamo corsi a Colombus Circle a prendere la linea 1 della metropolitana, quella rossa, che porta a South Ferry, la punta estrema di Manhattan, dove partono i ferry boats per Staten Island e per la visita alla Statua della Libertà.

Nonostante avessimo i biglietti prenotati, siamo stati un’ora in fila al freddo e al gelo, insieme ai gabbiani sull’estuario del Hudson River, ad aspettare il security check. Anche oggi, di nuovo, come all’aeroporto.

Su questo ferry rimaniamo ibernati e stupefatti, all’aperto al secondo piano per 25 minuti, mentre la barca si allontana da Manhattan e la esibisce in tutto il suo fantasmagorico splendore e si avvicina al maestoso gioiello simbolico di quella signora verde con la fiaccola in mano. La vista è mozzafiato, da un lato e dall’altro. Non si riesce a respirare, e non è solo per il freddo e il vento.

C’è questa distesa asimmetrica e brillante di grattacieli di ogni colore da un lato, e la statua, sola sull’isola dall’altro. Stare lì vicino è come stare in un film, e se ti concentri bene senti “Let the river run” che ti suona dentro al cuore.

Lei, semplicemente, è bellissima. Quasi elegante, con quel modo maestoso di stagliarsi contro il cielo azzurro e di sorridere a chi si avvicina. Mi sono emozionata davvero molto, a vederla, anche se non siamo potuti salire neanche sul basamento per visitarla.

Dopo gli scoiattoli e i gabbiani, oggi ci sono anche delle anatre nere e tanti passerotti ad accompagnarci nella nostra escursione marittima, che prosegue verso Ellis Island, il luogo dove gli immigranti per mare sbarcavano per essere vaccinati, ripuliti e augurabilmente ammessi nel territorio del nuovo mondo.

Sono le cinque e siamo quasi congelati, dobbiamo necessariamente rifugiarci da Starbucks, prima di incamminarci per Broadway e annegare tra le persone e i negozietti di Soho e Noho.

una passeggiata su Broadway

New York City, 22 dicembre 2010, ore 20.55 (GMT -5)

Per tornare dal South Ferry siamo scesi in Canal St e abbiamo passeggiato da quelle parti e poi lungo Broadway, verso Midtown, per un’oretta.

Abbiamo attraversato grandi strade, negozietti vintage, bancherelle di roba usata, boutique di moda, fast food di ogni genere a tipo. Insomma, abbiamo visto la fine di Tribeca e una parte di Soho e Noho. Siamo finiti in mezzo ai mercatini di Natale di Union Square.

Siamo annegati nella luce di Broadway per poi arrenderci all’evidenza che senza metropolitana non saremmo mai tornati al Dream Hotel.

Poi, per rifocillarci, abbiamo scelto l’Iguana New York, adorabile ristorante messicano, dove abbiamo pasteggiato a chili, filetto, e Shiraz della Yellowtail.
Per celebrare la nostra gioia, infine, doppia razione di “sipping” tequila, offerta dal nostro nuovo amico, il cameriere Paco. E ve lo dico io, la tequila Riazul Anejo vale davvero la pena.

Fifht Ave e NY dal cielo

New York City, 23 dicembre 2010, ore 00:10 (GMT -5)

Dopo mezza bottiglia di Shiraz e due tequila a testa, alzarsi non è facile. Neanche se sei a New York e c’è il sole. Specie se ti sei spaccata un tallone a camminare con gli stivali, hai la pelle carbonizzata da questo vento glaciale e da qualche ora i construction workers qui sotto si danno da fare col martello pneumatico.

La colazione con il Bakery Basket de “Le pain quotidien” ci sazierà fino alle cinque di oggi pomeriggio e allora? Va beh, dai, facciamolo, andiamo a vedere questa famosa Fifth Avenue.

Non senza una deviazione lungo la 57ma strada alla ricerca del posto più speciale del mondo: la libreria Rizzoli a NYC. Sì, proprio quella in cui De Niro e la Streep si sbagliano i sacchetti alla vigilia di Natale nel film “Innamorarsi”. Per arrivarci ci sono chilometri di negozi e grattacieli, compreso il negozio di pianoforti originale di inizio secolo di Steinway e figli, col piano bianco dedicato a John Lennon.

La Rizzoli è bellissima, commovente, con i festoni natalizi, musica jazz  col piano di sottofondo, gli scaffali di legno scuro e lucido. Al terzo piano c’è un reparto di libri in italiano, con Camilleri, Amanniti, Benni… insomma, il posto giusto per me. Quello da cui non me ne andrei mai. Per fortuna bisogna uscire, ed io non riesco a scegliere un titolo da portare via, anche se vengo tentata da una edizione rilegata di Alice in Wonderland con le illustrazioni e dalla trilogia di New York di Auster.

Fifht Avenue, la quinta strada, è un universo nuovo. Un’altra, l’ennesima New York. Sono chilometri di negozi e luci e banconote, sfarzo e ludibrio, folla e delirio. Sopra le nostre teste, enorme, il fiocco di neve dell’Unicef, all’incrocio con la 57ma strada. Di fronte a noi Luis Vuitton, e un palpitare estroso di lampadine e luminarie natalizie. Poi, solo confusione.

Due, su tutte, le tappe significative. L’Apple Store con l’ingresso che sembra la piramide del Louvre a Parigi, ed io che esco riflettendo sul fatto che non sono esattamente una donna, finchè ad un diamante continuo a preferire un iPad. Poi, per contrappasso dantesco, ecco Tiffany & Co. E  come non entrare? E come non spendere una cifra astronomica per farci due regali? E come non continuare a pensare all’iPad, anche se tutto sommato anche un diamante…

Sulla strada, oltre a noi, quante mila persone e sacchetti di carta e nastri e luci e dollari spesi, tra Cartier, Armani, Gucci, Burberry, Banana Republic. Le chiese passano inosservate, addirittura la New York Public Library sembra non esistere in questa confusione consumista.

Anche l’Empire State Building rischia di passare inosservato. Ma noi abbiamo i biglietti. Anzi, abbiamo il pass per saltare tutte le code e in men che non si dica siamo in cima.

E non immaginate cosa siano 86 piani soffrendo di vertigini. New York vista dal cielo è abbacinante, scioccante, addirittura violenta. Manhattan si percepisce nei suoi confini geologici, i due fiumi che sfociano nell’oceano, ma sembra non avere un tetto. La gara a chi è più alto non è solo in altezza, ma anche in luminosità e fulgore. E il Chrysler building ne è una prova eclatante. Da qui si vede tutto, dal Madison Square Garden a Central Park. Dalle cupole dorate degli edifici di inizio novecento alle sfumature di rosa sull’orizzonte dietro la statua della Libertà. Da qui si vede tutto, si è schiacciati dal vento, il cellulare non prende, e la vita scorre più veloce e più furiosa che mai.

Giù dall’Empire State Buiding ci aspettano i carretti dell’hot dog, da cui non possiamo esimerci ma che è davvero mediocre, due fermate della metropolitana e una passeggiata a Rockefeller Center. Ci siamo passati quasi per sbaglio, volevamo solo provare a pattinare. Beh, la coda è lunga due ore, ma intorno lo spettacolo dell’addobbo natalizio è talmente fastoso ed affascinante che la vista vale la folla e la coda. C’è un viale di angeli avorio di luce che annunciano la buona notizia, un albero pieno di colori, il negozio della Lego, gigantesco, un tripudio di festoni, la stella di Swarowsky cui forse il fiocco di neve dell’Unicef fa il verso.

Torniamo sulla quinta strada e ricominciano i negozi e la follia della fine dell’avvento, proprio come in un film. E noi sazi, dopo la tappa di shopping conclusiva nel meraviglioso NikeTown di NYC, torniamo in albergo, dopo sette ore sempre in piedi, senza sederci mai, coi piedi rotti e gli occhi pieni. Natale a New York. This is it.

Quante città in questa città

New York City, 23 dicembre 2010, ore 19:20 (GMT -5)

Oggi abbiamo visto altre città. Cioè, non è il primo giorno che ci capita, ma oggi è stato assolutamente evidente, addirittura terrificante. Chinatown è una colonia, non un quartiere. E quando ci lamentiamo del quartiere cinese a Milano, per piacere, facciamo attenzione a ciò di cui stiamo parlando. Qui ci sono cartelli in cinese, volantini in cinese, segnali stradali in cinese, cinesi… pesci vivi (veramente quasi morti soffocati) nelle vetrine dei ristoranti, pochissimi bianchi e quasi solo turisti come noi. Ci sono insegne luminescenti, frutta mai vista, scale antincendio dipinte di verde, gruppi di anziani che giocano a dama e a qualche gioco di carte con questo freddo bruto in Colombus park, una chiesa (cattolica di rito romano) con la messa in quattro lingue: Cinese, Inglese, Cantonese e Mandarino. Le pompe funebri cinesi (quindi qui esistono dei cimiteri), banche, negozi assolutamente inutili, un ufficio postale, una strada che si piega ad L per non far passare i fantasmi, che vanno sempre dritti, un tempio buddista all’inizio del Manhattan Bridge. Chinatown è un casino incredibile, e con il vento freddo che ci spezza le gambe è anche peggio.

La nostra esplorazione procede in Little Italy, che invece, semplicemente, è un quartiere giocattolo pieno di ristoranti italiani e aspiranti venditori di mozzarella importata. Come nelle migliori tradizioni c’è la pizza, il presepe, un mezzobusto di Sant’Antonio da Padova e decine di locali copia l’uno dell’altro tra cui troneggiano Benito I e Benito II. Lascio a voi i commenti.

Poco più in là c’è Nolita, che è così raffinato e piccolo che non si capisce bene come abbiamo fatto a cambiare città senza nemmeno salire su un treno. Due isolati e il mondo è un altro. Case basse, locali invitanti, strada pulita.

Per arrivare alla nostra meta attraversiamo anche Soho, di nuovo. E a questo punto mi innamoro completamente di questo posto di casine accoglienti coi tetti bassi, boutique alla moda, gallerie d’arte e negozi di roba vintage che non mi metterei mai ma fa tanto figo guardarli. C’è un traffico bestiale, un freddo atroce, le luci di Natale, la gente che scalpita per finire il suo shopping. Il camerino del Levi’s Store dove possiamo entrare insieme a provare i jeans e prima di entrare i commessi gay ci augurano “Have fun. Enjoy!”.

E poi c’è il museo del fuoco, ma questo ve lo racconto in separata sede.

The Fire Museum

New York City, 23 dicembre 2010, ore 19:30 (GMT -5)

Il museo è a Soho, non è famoso, forse non lo considera nessuno, eppure noi volevamo venire proprio qui. In una vecchia stazione dei pompieri adibita a museo storico di questo corpo che per decine di anni è stato composto di soli volontari. Ci sono autopompe storiche, una volta trainate da uomini o da cavalli, stemmi e oggetti dello scorso secolo, un gigantesco memoriale per i 353 caduti dell’11 settembre 2001.

Senza le foto non si può raccontare questa sintesi estrema di coraggio, spirito di corpo e dolore nella memoria. Si può solo ripensare alle immagini terribili dell’11 settembre, che lì sono esposte in tutto il loro nitido orrore, e cercare di non piangere.

Io, ovviamente, piangevo come una fontana.

Ava Lounge

New York City, 23 dicembre 2010, ore 19:40 (GMT -5)

Non si può esattamente raccontare. Si può ascoltare, qui.

Questi venti minuti di follia che sto passando sono semplicemente ineffabili. Suona ‘Ultraviolet’ degli U2, per chi si ricorda la bellezza di questa canzone, sono al quattordicesimo piano di un edificio e non ho le vertigini.

Ci sono le finestre grandi, corone natalizie sul vetro e dietro il profilo dei grattacieli illuminati da se stessi e dalla luce riflessa di Broadway.

Baby, baby, baby, light my way… sul fondo del secondo Cosmopolitan, la chitarra di The Edge e questa emozione fortissima che non so frenare, quindi la metto qui, sulla mia Moleskine.

Iridium jazz club

 In volo tra il JFK e Heathrow, 25 dicembre 2010, ore 22:25 (GMT -5) 

Non posso andare via da New York senza aver provato l’esperienza del jazz club, quello vero. Thanks God, il concierge del Dream Hotel, Anthony, è davvero gay, davvero nero e davvero preparato in materia.

E così, a dispetto dei consigli della Lonely Planet e della mia recondita aspirazione di andare al Blue Note, abbiamo deciso di accettare il suggerimento di Anthony e giovedì sera alle dieci, dopo i due Cosmopolitan a stomaco vuoto nell’Ava Lounge, ci siamo presentati alla porta dell’Iridium Jazz Club, 1650 Broadway, all’incrocio con 51th St.

Beh, senza la musica l’esperienza non si può davvero raccontare, perché è lei che la fa padrona. E quindi ci ascoltiamo questa.

Il locale è proprio come in un film: seminterrato, buio, con il palco illuminato dai neon bluastri dell’insegna del club, spoglio di ogni altro orpello che non siano gli strumenti, tra cui troneggia, incontrastato, un vecchissimo contrabbasso con riflessi aranciati.

Nonostante lo sdegno di alcuni avventori, ci scoliamo una sana bottiglia di Petit Syrah di Napa Valley e divoriamo due burgers di Kobe beef. Ecco, io non so se la troverò mai in Italia, la Kobe beef, ma è così buona che uno quasi si commuove, ad assaggiarla.

Senza frizzi né lazzi sul palco salgono quattro vecchietti che si guardano e poi …,…, three, four e cominciano a suonare. Dei nomi della band riconosco solo Mike Stern al momento (nientemeno che uno dei chitarristi che hanno suonato con Miles Davis). Gli altri sono Ron Carter al contrabbasso, George Coleman al sax tenore e Jimmy Cobb alla batteria (o alle percussioni?). Ecco chi sono, i quattro vecchietti.

Semplicemente, non ve lo so descrivere, perché per uno show così non serve la luce e non servono gli effetti speciali, c’è solo una stanza buia che fa da cassa di risonanza alle variazioni improvvisate sul tema di Miles Davis, la musica che entra dentro la pancia e scalda, lenisce, cura, le persone attorno che nel buio applaudono e talora esclamano entusiaste. Insomma, it’s all about jazz.

L’esibizione dura più di un’ora e mezza e io sono felice. Felice che siamo qui, che tra poco è Natale. Che fuori fa un freddo cane ma dentro vibro ancora.

Felice di essere una che preferisce un iPad ad un diamante, e il jazz al musical, anche se tutto questo è un po’ più difficile da gestire. Felice. Così.


quinto piano

 In volo tra il JFK e Heathrow, 25 dicembre 2010, ore 22:40 (GMT -5)

Raccontare una settimana a New York non è scrivere un diario di viaggio, è cercare di preparare una prelibata paella con la penna. Ci sono troppe cose da guardare, troppi ricordi in cui perdersi.

A partire dalla colazione da “Le Pain Quotidien”, grazie Sisa del consiglio, in vetrina tra la settima e la cinquantottesima (se fossi veramente figa, direi between 7th Ave and 58th St). È una settimana che mangiamo qui tutte le mattine, ormai ci conoscono, e ogni giorno ci piace sedere qui una mezz’oretta a guardare l’abbigliamento di chi passa sul marciapiede e studiare la guida (che ormai è la mia specialità).

Ma è la vigilia di Natale e in tasca ho due biglietti per il MoMA, quindi andiamo.

Mi hanno parlato così tanto del MoMA che per un’ora mi sono sentita stupida e ignorante, a parte quando guardavo le mostre fotografiche. Io non capisco un tubo di arte contemporanea e forse neanche mi piace. Ma allora perché sono tutti così entusiasti?

Il perché è al quinto piano del museo (in my opinion). Pittura e scultura moderna. Possibile che io abbia davanti la “donna allo specchio” di Picasso? Quella vera? Cazzo, sì.

E così siamo impazziti. Per almeno un’ora e mezza abbiamo ciondolato per il quinto piano di questo fantasmagorico edificio della 53th St, io con la faccia da folletto allucinato e Mick a scattare foto come un pazzo per fermare l’emozione dentro il ricordo con un’immagine.

Lo so, lo sapete già tutti che al MoMA c’è tutto. Ma cazzo, le avignonesi di Picasso, il sogno di Rousseau che di per sé è bellissimo ed in più è la copertina di Teresa Batista stanca di guerra. C’è Magritte, Miro, Kandiskij, Modigliani. C’è il dinamismo di un giocatore di calcio di Boccioni, che fa il verso alla leva calcistica del ’68 di De Gregori. Ma perché l’olio su tela di Van Gogh è protetto da un vetro, mentre gli altri no?

Non c’è, porca miseria, la persistenza della memoria di Dalì, prestata proprio in questi giorni ad un museo di Atlanta.

C’è, e sono rimasta nuovamente senza fiato, gran parte della collezione delle ninfee di Monet. C’è che ce le ho nel cuore, le water lilies, da quel sabato di luglio 2009. Il primo gesto della mia libertà esistenziale, più che intellettuale: vado a vedere una mostra da sola e mi prendo pure l’audioguida con Baricco che legge City e racconta del giardino di Giverny.

Bello, bellissimo il quinto piano del MoMA. Del resto non ho capito quasi niente, ma facciamo una cosa per volta… e quindi andiamo a spendere un patrimonio in regalini al MoMA shop, perché siccome qui sono intelligenti l’intero ricavato delle vendite dello shop viene devoluto a mantenere il museo.


Winter in New York

In volo tra il JFK e Heathrow, 25 dicembre 2010, ore 23:00 (GMT -5)

Eh sì, anche se non ci sono gli stessi colori del film, e quindi bisogna cambiare stagione nel titolo, bisogna andare a esplorare Central Park prima di tornare in Fifth Ave.

Vigilia di Natale, ore 14. Fame, freddo, piede che mi fa male. Leggins troppo leggeri, gambe ghiacciate, e anche le dita delle mani mi stanno abbandonando. Però, questo è uno spettacolo che vale e merita tutto e anche oltre.

Anche se è il 24 dicembre è pieno di gente: turisti increduli come noi due, bambini che giocano, newyorkers (o niuiorchesi, come suggerirebbe Gabriele?) che corrono per tenersi allenati, gente che semplicemente, qui in mezzo, passa per andare dalla East alla West side.

La vista è un puzzle di particolari.

Per esempio, potresti scoprire alla tua destra una pista per pattinare sul ghiaccio piena di gente con abiti sgargianti e coloratissimi, oppure potresti voltarti a sinistra e scorgere un gazebo di legno: chess & checkers. Fai dieci scalini e ti metti a giocare a scacchi o a dama ascoltando quel signore nero infreddolito, laggiù, che suona col sassofono “Have yourself a  merry little Christmas”.

Potresti passeggiare per il Mall con gli artisti di strada in versione statunitense e i carretti che vendono frutta secca caramellata e zucchero filato. Lo senti il profumo stucchevole nell’aria e questo alito caldo che avvolge improvvisamente le narici?

Poi potresti voltarti indietro e guardare quanta strada hai fatto, scorgere intorno a te collinette e sentieri nei colori del grigio e del marrone, con qualche sprazzo di verde qua e là, uno scoiattolo potrebbe tagliarti la strada e allora scopriresti che non è socievole, il New York squirrel, alla faccia di quelli di Boston e di DC.

E quindi potresti avere l’ardire di alzare gli occhi e rileggere quello stesso cielo di Manhattan che guardi da giorni, irradiato dal sole bianco che ci ha fortunatamente accompagnati anche oggi, tra i rami marroni rinsecchiti dal freddo. Osservare i grattacieli contro il cielo dietro il ricamo dei rami degli alberi è proprio come stare dentro una cartolina, senza essere a flatlandia.

Potresti camminare fino alla fontana Bethesda e sperare che passi Patrick Dempsey a fare il principe azzurro in carne ed ossa, oppure rimanere sbalordito a fotografare il lago ghiacciato. Ma proprio ghiacciato. Verde scuro, quasi marrone, perfettamente immobile su se stesso.

E mentre cammini cercando il lago intitolato a Jackie, passi accanto al castello del Belvedere e al teatro di Shakespeare.

Altro che giardino pubblico: Central Park è un piccolo mondo, e davvero affascinante da esplorare.

Ma in tutta questa emozione ventosa e ghiacciata, come canta Liga, il meglio deve ancora venire.

Volevo andarci da quando siamo arrivati, ma sarà stato il caso, il destino o chissa che, erano le quattro del pomeriggio della vigilia di Natale e io ero l’ì, a Strawberry fields.

E in questo “pleasant place” per il cui mantenimento Yoko Ono ha donato un milione di dollari alla città di New York, ad un crocevia di sentieri, per terra, c’è un mosaico.

Un disco, bianco e nero. Al centro, petali di rosa che il vento non spazza via e solo una parola: IMAGINE.

una nota su Strawberry Fields

A scanso di sembrare ovvia e saccente, vorrei raccontarvi che Strawberry Fields è quella zona di Central Park che è stata chiamata così in onore della canzone di John Lennon “Strawberry fields forever”. Lui stesso disse che questa parte del parco era un pleasant place, e lo è davvero, verde accogliente e silenziosa.

Beh, il pazzo che l’ha ucciso gli ha sparato proprio lì, la sera del 8 dicembre 1980,  di fronte al Dakota building, dove abitava. E il mosaico è il monumento che è stato dedicato al ricordo, penso più della sua vita che della sua morte. E sono ancora un po’ commossa.


So this is Christmas (Eve)

In volo tra il JFK e Heathrow, 25 dicembre 2010, ore 23:30 (GMT -5)

… e per questo post ho scelto ad hoc la colonna sonora: qui.

La nostra Vigilia comincia davvero su Fifth Ave, in una follia di luci e clacson e semafori e sacchetti e gente che corre forsennatamente da un negozio all’altro. Passeggiamo un po’, poi facciamo tappa all’Apple store, giusto per dire ciao alla mela bianca nella grande mela, comprare uno shuffle e toccare di nuovo l’iPad.

Spese in un mercatino cinese per comprare la colazione dell’indomani: succo, biscotti e acqua.

Due ore di vago panico per un improvviso blocco delle carte di credito. Tutte e quattro. Bloccate? Clonate? Smagnetizzate? Esaurito il plafond? Per fortuna i siti internet si sbloccano e i numeri verdi funzionano, e la crisi rientra, anche se per un po’ abbiamo temuto di disporre solo di una banconota da venti dollari.

Cena al Blue Ribbon Sushi a Soho, pasteggiamo a prosecco e “white tuna”, e anche stavolta, per miracolo, abbiamo azzeccato l’ordinazione di cibo giapponese da un menù in inglese e abbiamo mangiato divinamente (e speso anche poco).

Alle undici meno venti prendiamo la metro e sbagliamo direzione, così a Brooklyn arriviamo che sono le undici e mezza, su per giù.

“Ellerie & Kevin come and pick us up at the metro station”. O meglio, come dice Mick, vengono a prenderci col pick up.

Facciamo quattro passi ed entriamo al Clover Bar, un posto caldo (finalmente), molto fine ed accogliente, con una cameriera nera che si chiama Frankie e cerca di interagire in Italiano col dottor stranamore.

La serata è lunga e piacevole, la conversazione è in inglese-italiano-spagnolo con alcune interessanti traduzioni letterali, la cui paternità comunque va tributata a Josè (una su tutte: with the dick), e se la compagnia è buona beve anche parecchio perchè ci scoliamo tre cocktail a testa (the sparrow. jack sparrow? no! si chiama the sparrow, il cocktail).

Comunque, pieni di sushi, prosecco, vermouth, inglese e progetti per il futuro, alle due lasciamo il Clover Bar, dopo che ci hanno offerto il bicchiere della staffa e andiamo a fare un giro in macchina per Brooklyn. E poi, a piedi, la Brooklyn Heights Promenade.

Eccola lì, lower Manhattan, in tutto il suo splendore notturno. Il cielo è nero, i grattacieli illuminati dall’interno, l’East River scorre piano. In fondo a sinistra, laggiù, la fiaccola sempre accesa della Statua della Libertà. A destra i due ponti, Brooklyn e Manhattan, così sottili nel buio pesto.

In mezzo scorre il fiume e si colora questa cartolina della skyline di New York, irregolare, asimmetrica, luminosa, irriverente, ambiziosa. Si vede il Chrysler Building, l’Empire State (che però non è illuminato di colori strani adesso, forse perchè è la notte di Natale?), Staten Island. Si vede, laggiù, come una ferita nel cielo, l’enorme vuoto di luce lasciato dall’assenza delle twin towers. E si fa un minuto di silenzio.

Poi si risale in macchina e poi in metro. Arriviamo in albergo alle tre e trentacinque, ubriachi duri, felici e storditi da tanta impressionante diversità.


Natale a New York, e non è un sogno nè un film di Vanzina

In volo tra il JFK e Heathrow, 25 dicembre 2010, ore 23:50 (GMT -5)

Natale! Manca solo la neve, che allora la metto nella canzone: qui.

Alzarsi, una fatica cosmica.

Fare i bagagli, quasi una resa.

Biscottini, succo di frutta rossa e acqua naturale, e le valigie non bastano mai. Viaggeremo come due migranti.

Ci vestiamo di tutto punto con la tutina da ricchione, come l’hanno gentilmente chiamata in ufficio, e andiamo! Il nostro Natale a New York sono 45 minuti di jogging in Central Park, con gli scoiattoli, gli uccellini rossi e blu da birdwatching (ma qui ci vorrebbe la mia socia An), le carrozze con i cavalli che portano in giro i turisti infreddoliti.

Fa freddo: c’è meno due e sono le undici e mezza. Correre è più faticoso del solito, ma l’emozione vale la fatica.

Non saremmo potuti partire senza. Non senza il jazzclub, non senza la corsa in Central Park, non senza il pranzo americanissimo che abbiamo divorato da Brooklyn Diner, a base di zuppa di pollo, bisteccazza al pepe nero con le patate, sundae al cioccolato e cheesecake alla fragola.

Adesso stiamo tornando a casa, manca un’ora ed un quarto ad arrivare a Heathrow e tecnicamente è quasi mattina. Ma io non ho neanche un po’ di sonno.

Ci penso su.

E quando torno a casa riscrivo tutto il diario da capo, senza la cronaca, solo con l’emozione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *