Volevo dire una cosa, anche se è molto naïve. Forse suona banale, rudemente commerciale, ingenua e nemmeno tanto erudita, che è un po’ il contrario della mia fichissima me, intellettualoide di merda radical chic; però è vera (ed è molto meglio della mia immagine riflessa dalla società).
Sono morte tante, tantissime, troppe persone quest’anno, e quindi suono anche a me stessa ancor più immorale di quella che ha scritto la riga sopra, però mi par davvero che la cultura latina (aka sudamericana) sia stata tremendamente massacrata dal duemilaventi.
Saranno i miei ricordi, le angolazioni e le suggestioni di una vita un po’ strana e poco ordinata, ma se li leggo… Luis Sepulveda, Quino e Diego Armando Maradona, mancati uno in fila all’altro in sei mesi, mi suonano nelle orecchie con l’eco di un dolore sottile ma stabile, come se l’umanità avesse perso un accento (uno dei suoi tanti, quantomeno).
Lo so, nessuno si aspetta da me che io mi sia accorta che è morto Maradona. Io non mi accorgo di un sacco di cose ed il calcio non solo non mi interessa, proprio non mi piace. Però oggi è diverso.
Sepulveda l’ho amato tanto, l’ho letto tutto, lo cito talora (più o meno consapevolmente), e rappresenta uno dei capisaldi della mia assurda autoformazione socio-letterario-politica che mi ha reso lo stereotipo incidentale che sono: buffo e strutturassimo personaggio che pratica il latino ed il greco, conosce tre lingue e capisce lo spagnolo ed il gramlö, oscilla tra l’integralismo del rispetto delle norme e la predica della tolleranza universale, ed è affetta da crisi di shopping compulsivo online, donando (generalmente lavoro) al non profit, discorrendo di fatturato come il milanese imbruttito e sostenendo pubblicamente che la progressività della imposizione sia cosa buona e giusta.
Uno dei ricordi più romantici (e densi di significato) della mia giovane età è il “diario di un killer sentimentale” regalatomi da Alessandro (insieme a Fleurs di Battiato ed alla riproduzione di Annarella dei CCCP – dedicata – con voce e suoni incisi della band del tempo) alla partenza per l’erasmus a Barcelona (in cambio della mia copia di “Oceano mare” e di decine di cassette che ovviamente Ale non ha mai ascoltato). Quale dessino (vero) del millenovecentonovantotto avrebbe potuto non amare Sepulveda?
Quino, invece, l’ho amato ancor di più, perché ero piccola. Ero piccola piccola piccola così. Così piccolissima che non ci credete, quando i miei genitori mi regalavano i fumetti di Mafalda (poi uno si chiede perché cresci così… se a sette anni leggi Mafalda). Nei miei ricordi vaghi di bambina (non ragazzina, badate bene, perché una che legge i Miserabili a tredici anni ha già macinato anche Calvino a quell’età, figuratevi il resto…) ci sono Mafalda e Bobo, e talora sono anche confusi.
Quino e Staino, in effetti, sono quasi una allitterazione.
Me la ricordo nitidamente Mafalda, bianca e nera, arruffata ironica (e quindi iconica), tranciante come un machete, che attesta senza voce verità agghiaccianti con la sua sola immagine di bambina goffa, bassa e forse grassa, col nome di una regina.
Me la ricordo come fosse adesso, la cito sempre, e ci ho pensato la mattina dell’otto settembre duemiladiciassette, perché è allora e con lei che ho letto, in tempi non sospetti: “Se la vita comincia a 40 anni cosa diavolo ci mandano a fare con tanto anticipo?”.
Non ho amato per niente, invece e naturalmente, Maradona. A parte quando ho chiesto a Luigi se per caso Diego non si chiamasse Diego Armando in omaggio al calciatore (retaggio matrimoniale inconfessabile). Diego Armando infatti, per me, era “solo” un calciatore (o una canzone di Iannacci), e a me non piace il calcio (anche se Baccini con quel “tira Diego” mi ha quasi fregata).
Era anche un po’ tossico e faceva cose discutibili, in effetti.
Poi mi è successa la stessa cosa che mi è successa (poi) con Vasco Rossi (grazie Luca).
Un ragazzo che conoscevo bene, ma bene bene bene, mi ha spiegato perché uno nato nelle Marche da famiglia emiliana e pugliese, cresciuto a Milano e “studiato” alla Bocconi, potesse tifare Napoli.
Diego Armando Maradona. La mano de dios. El pibe de oro. E bla bla bla…
Non ci ho capito un cazzo, lì per lì.
Non ci ho capito un cazzo quando Matteo mi ha costretta a guardare e riguardare la puntata di Sfide dedicata a Maradona, però è uno dei ricordi più belli della nostra vita insieme, anche se non ci ho trovato neanche un razionale.
Sapete perchè? Perché ho intuito che l’espressione della capacità vitale umana ha forme che io posso non intelligere e nemmeno gradire, ma c’è.
Eccome.
Me lo ha insegnato il mio ex marito, ed è una delle cose di cui gli sono grata, perché è una espressione profonda, semplice e sincera dell’umanità, che mi sfuggiva completamente.
Un uomo “alto così” che palleggiando influenza l’umore di una città, che segna la possibilità del cambiamento sociale in un territorio “depresso”, che dà speranza a gente che non ne ha.
Uno così, secondo me, è, a suo modo, un artista. E non so se Leonardo o Mozart o Gaudì sapessero usare in quel modo i piedi (ma non credo).
C’è quel video dei non so quanti palleggi nel riscaldamento della finale di Uefa del 1989 (o almeno così dice il sito del Corriere) che fa rabbrividire per quanto è emozionante, nella combinazione della movenza latina con la pratica calcistica. E c’è quell’altrettanto commovente omaggio dell’intervista del 2011 a “Che tempo che fa” in cui Maradona dice in una lingua scalcinata che vanno onorati il padre e la madre e non i calciatori.
Insomma già… mi son confusa anche io però penso davvero, anche se è un po’ ingenuo e forse troppo semplice, che un altro genio se ne è andato e noi rimaniamo soli.
Sono morti Sepulveda, Quino e Maradona. In sei mesi o qualcosa di più.
Tre voci variegate, espressive, differenti ma rappresentative di campioni di umanità, tutte latine, si sono spente. Come a toglierci quell’accento spassoso, acuto, feroce e onesto che arriva dalla declinazione sudamericana (nel senso di latina) della realtà.
Son quasi chiusa in casa da febbraio, l’ultimo posto dove sono stata (quasi) è Cuba. Il posto precedente (a parte i tanti viaggi di lavoro in cui parlo tanto ma non “vedo” niente) è la Cina.
Guardo il mondo intorno a me e non lo capisco, tra medici cubani e vaccini cinesi. Qualcosa stona. Come l’incapacità italiana di rispettare le regole ed il dolore di aver perso pezzi espressivi delle arti umane, tra le quali, stasera, anche il pallone.
Mi dispiace, perché la speranza ha bisogno di simboli per splendere, e non tutti hanno fede per tenerla ugualmente viva.
Le persone che “fanno”, danno.
Le persone che fanno di più, danno di più.
Se ne sono andate tre persone che hanno fatto tanto e dato di più, cambiando in qualche forma il pensiero del pianeta (e se prendiamo Maradona, abbiamo ricompreso anche fasce non istruite e non necessariamente abbienti della realtà). Tre persone che andandosene hanno tolto una parte di voce a quell’accento che amo così tanto, quello del popolo sudamericano, nel quale ritrovo affetti, tanti, presenti e passati e qualche amico contemporaneo.
Guardo allora quella pagina del Granma su cui un sedicente artista cubano ha dipinto la percezione contemporanea del senso della Revoluciòn (1+1=5), senza sapere la matematica né sapere che esistono diversi sistemi di numerazione, e penso con sincera, innocente e forse gretta onestà, che il Sudamerica ed il pianeta hanno perso una, due e poi tre delle grandi voci che hanno mosso milioni di culi, di pensieri, di sorrisi e, perché non… anche di dollari e moneta equivalente.
Come diceva il mio ex marito: speriamo che Dio ce la mandi bona e senza mutande (fa impressione ma credo ci serva).
Amen.
L’anno scorso, più o meno in questo periodo, ero in Argentina a Buenos Aires per la seconda volta ed uno degli obiettivi del trip era visitare la “Bombonera”, il “tempio” del Club Atletico Boca Junior che ha visto Diego Armando Maradona tra i suoi principali protagonisti.
All’interno dello stadio, ad uso e consumo dei visitatori, è stato creato una sorta di museo in cui sono ovunque le testimonianze dedicate a Diego Armando. C’è anche una specie di auditorium a forma di pallone da calcio che contiene circa una cinquantina di persone in cui in una breve sessione audio-visiva si può comprendere lo spirito “Xeneize” che permea il luogo.
Anche a me non fa impazzire il personaggio ma è innegabile la sua dimensione planetaria, universalmente riconosciuta, e la visita alla Bombonera ed al barrio del Caminito di cui è l’edificio dominante, mi hanno dato una visione diversa.
Questa morte improvvisa è in linea con il personaggio, inserita in un copione pazzesco che nemmeno il più bravo degli scenografi avrebbe potuto scrivere.
Molti vorrebbero sminuire il personaggio, ridurlo ad un misero cocainomane, alcolista, pallonaro egocentrico, ma per i milioni di argentini, e non solo, che hanno voluto rendere omaggio alla sua bara in queste ore, hanno trovato in lui il paladino da adorare, la rivalsa della condizione in cui vivono, la voce delle “villas miseria” da cui anche lui è arrivato…
Quando ero ragazzo e vedevo le sue gesta avevo coniato per lui un nomignolo canzonatorio che inserivo nella articolata e musicale composizione del suo nome: Diego Armando “sempiterno” Maradona!
Forse avevo solo previsto l’epilogo: Ad10s Campeon!