Trinidad, Skyview hostal – Dec 22, 23:10 (GMT -5)
Finalmente cominciamo a capire: bisognava stare sei ore in viaggio con una coppia di cubani trentenni per costruire una percezione sensata di questa realtà così dissonante, e forse bisognava anche stare quattro giorni a camminare stupefatti, curiosi e talora disgustati nelle strade fangose e puzzolenti de La Habana, costantemente nelle mani degli habaneros e del loro sistema truffaldino di gestione dei turisti, per capire. Dicevo un paio d’ore fa a Luigi che se le cose che abbiamo capito oggi le avessimo sentite dire prima forse non le avremmo credute.
Dopo la lunga giornata da soli e il favoloso concerto irripetibile che si svolge ogni giorno, stamani ci siamo alzati presto, abbiamo richiamato le truppe all’ordine e siamo partiti da Calle Jovellar alla volta di Trinidad, trasportati da un chaffeur e dal suo minivan del Gobierno. Ernesto, il chaffeur, ci ha chiesto se fosse un problema che ci fosse anche sua moglie, così non faceva il viaggio da solo. Figurati se è un problema: du is megl che uan. Soprattutto per un viaggio di cinque ore con una sosta che ci sconsigliano di fare perché “a Santa Clara non c’è niente per i turisti”.
Il viaggio con Ernesto e Laura è stata una bellissima esperienza umana e ci ha permesso di parlare (e chiedere) liberamente delle tante contraddizioni che abbiamo incontrato in questi primi giorni.
Guardavo fuori dal finestrino e ho visto una mucca (mira, una vaca!): Ernesto si è messo a ridere e mi ha spiegato che a Cuba le mucche sono sacre. Al mio “perché?” incuriosito, ha risposto che siccome Colombo ha incontrato Cuba lungo la via delle Indie e siccome in India le mucche sono sacre, allora anche a Cuba le mucche sono sacre. Al mio secondo “perché?” ha risposto, candidamente, che non lo sapeva (e non mi ha detto che stava scherzando). Babbuina che sono, serissima, gli ho chiesto allora da dove venisse il solomillo che si mangia, e lui mi ha detto che i privati non possono uccidere le mucche, come in India, ma che il Gobierno può. Tu vendi la vaca al Gobierno e il Gobierno puede matar la vaca.
Ci ho messo un po’ a capire l’ironia, in una lingua che capisco ma non parlo, ma quando ci sono arrivata ho colto anche tutta la freddura e la tristezza della realtà.
Alla fine del nostra conversazione sono riuscita a chiederglielo: ma quindi le promesse della rivoluzione erano tutte bugie?
Sì.
Ma adesso o sempre?
Adesso.
Miercoles.
È su una conversazione di questo tipo che si infrangono anni e anni di convinzioni perbeniste da intellettuale radical chic e mi chiedo cosa diavolo io abbia capito della storia del mondo.
Realistico, spaventoso, sì, ma ancora controvertibile: la rivoluzione ha cambiato (e salvato) il destino di questo popolo, grazie al coraggio enorme di uomini che avevano tutto da perdere ma tanto di più per cui combattere, poi però, forse svendute al magro soldo del potere, le idee che non si possono uccidere sono state tradite ed i cubani si trovano a vivere in un paese senza possibilità di sviluppo, cercando invano di dare la colpa ad altri (e nella fattispecie quegli stronzi degli americani).
Ernesto ci spiega con semplicità che avere la sua età consente di vedere in maniera asettica e distaccata il concetto de la revoluciòn: non c’è l’attaccamento venerante dei nonni che si ricordano di Batista nè la forza del compromesso dei genitori che hanno visto il mondo cambiare. A trent’anni vedi solo l’economia ferma, l’impossibilità strutturale di qualunque forma di sviluppo, l’ottanta per cento dello zucchero importato nel paese che ne vanterebbe la più grande produzione al mondo, l’istruzione che decade progressivamente, la sanità annichilita dietro le penose condizioni igieniche degli ospedali ed i redditi dei medici che sono inferiori a quelli dei tassisti. Anche studiare non conviene, perché non permette di avere una vita migliore ma condanna a dover fare due lavori per vivere.
Ernesto ci dice anche che secondo lui il più grosso danno alla rivoluzione l’ha fatto Obama: aprendo uno spiraglio di libertà all’economia ha smontato l’alibi del grande nemico americano e permesso di capire che gli effetti contemporanei del castrismo, così come si è configurato dopo gli anni novanta, sono effetti del castrismo e non (solo) dell’embargo.
È strano: nella sua voce ci sono rispetto ed emozione quando parla di Camilo o di Che, nessuna inclinazione nel nominare i fratelli Castro. Ernesto sembra un figlio della rivoluzione che ne coglie nitidamente i pregi e gli effetti, per poi dichiarare che gli ultimi sono stati dirottati verso la solita corruzione oligarchica che distrugge libertà, uguaglianza, distribuzione del reddito e speranza di crescita. Ovviamente, ritengo doveroso precisare che questa è una mia libera reinterpretazione delle parole di Ernesto, ma da come ci siamo capiti credo che lui concordi con me.
Viene da piangere a pensare a queste cose davanti al loculo dove sono conservate le spoglie di Che Guevara nel mausoleo di Santa Clara. Il museo, che stavolta è molto bello (alla faccia del Museo de la revoluciòn a La Habana), racconta la storia della vita del Comandante in fotografie, oggetti e riproduzioni dei suoi diari e delle sue lettere, compresa la pagina autografa del 7 ottobre del ‘67 ed una sua foto in albergo, poco prima di partire per la Bolivia, con la faccia mascherata al punto da renderlo irriconoscibile. In questi metri di pietra, accanto ai loculi dei guerriglieri giustiziati dalla CIA e recuperati trent’anni dopo da una fossa comune, rimbomba forte la memoria di un uomo pieno di coraggio e di umanità, ma soprattutto pieno di idee e di coerenza, e mi commuove profondamente. Ancor più profondamente mi commuovono la sua lettera a Fidel riprodotta accanto alla statua sul monumento funebre e quel cartellone dall’altro lato del piazzale del mausoleo che dice: una stella ti posò qui. È come se a Santa Clara, nell’aria, si respirasse la profonda gratitudine del popolo cubano per chi ha gratuitamente e strenuamente combattuto per la sua libertà.
È così che poi mi viene da incazzarmi sul serio, pensando al chirurgo tassista, ai negozi vuoti, al cibo razionato che basta solo per un settimana, al mercato nero… dove vanno a finire tutti i soldi che i turisti ogni anno lasciano nelle casse dei resort di Varadero e dei Cayos? Quando capiranno che questo popolo, così come viene costretto a vivere ora, non ha alcun futuro?
A Santa Clara, prima di visitare il monumento al treno blindato ed il mausoleo del Che, abbiamo pranzato con Laura ed Ernesto nell’unico ristorante dove si paga in CUP (moneta nazionale, non convertibile). Pranzo cubano in mezzo ai cubani, conto cubano (30 euro in sette). Famiglia arcobaleno con famiglia arcobaleno che si confronta sui grandi temi della politica, della povertà e della migrazione, mangiando pescado e riso. Il pasto più semplice e sincero che abbiamo consumato da quando siamo arrivati, in cui i nostri compagni di strada hanno compreso il nostro desiderio di volerci fermare a visitare questo luogo in particolare.
Poco prima delle quattro siamo partiti alla volta di Trinidad, attraversando un centinaio abbondante di chilometri di Sierra. Strade dissestate, buche, carri trainati dai cavalli al posto delle auto. Un manifesto dedicato al Che, uno che inneggia a Fidel. Nemmeno l’ombra di un turista. Nella mia sterminata innocenza (ed ignoranza), penso umilmente che si debba guardare di cosa è fatta la Sierra e come si raggiungono le case, per capire di cosa è fatta la guerriglia e del perché qui fosse l’unica soluzione percorribile.
Di questo giorno in viaggio, che temevo essere un giorno perso su un taxi, mi porto a casa la comprensione improvvisa della realtà che per giorni ho osservato senza coglierne l’essenza ma solo le contraddizioni. Mi porto a casa le facce dei nostri compagni di viaggio pronti a migrare in Europa (Canarie, per la verità) cui abbiamo lasciato numero di telefono e indirizzo di email. E mi porto a casa anche la bellezza selvatica e spaventosa di tanta terra potenzialmente così ricca ed altrettanto poco utilizzata, battuta da carri perché le auto non si producono nè si possono importare e percorsa da una sola autostrada per tutta l’isola.
Poi mi porto a casa le luci di Trinidad, che ci accoglie in una bella casa particular decisamente tropicale e ci porta fuori a cena in un ristorante coloniale e a ballare la salsa, almeno con la testa.
Vado a dormire con Cohiba di Daniele Silvestri che mi suona nelle orecchie immaginando i bambini che l’8 ottobre vanno in gita di classe a spargere petali di fiore nel mare, e mi rendo conto che solo oggi capisco davvero cosa vuol dire. Auguro quindi a questa terra una nuova rivoluzione, possibilmente pacifica, che permetta di costruire il futuro a partire dalle battaglie del Che, non di distruggerne sia il senso sia il valore come sta succedendo ora.