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Castelli, missili e rivoluzione

  • AliceD. 

La Habana, Terrazzas de Jovellar – Dec, 21 – 19.20 (GMT -5)

La Habana ed i suoi abitanti continuano a lasciarmi basita: in questo mondo la visita guidata ad un luogo si paga con un biglietto aggiuntivo in pesos convertibles (CUC) che vale circa un terzo del biglietto normale, alla fine del percorso la guida chiede comunque una mancia. In questo mondo Fidel e Che sono venerati come semidivinità ma il peso del Gobierno si sente come la puzza di smog vicino al tubo di scappamento di una vecchia Cadillac. In questo mondo grandi anziani si aggirano per El Prado vendendo giornali. Ridendo dico a Paolo: dai, almeno questo non è di Lotta Comunista.  Poi però devo ricredermi: oggi ho scoperto che il giornale si chiama “Granma”, che per chi non lo sapesse è il nome della imbarcazione con cui Fidel, Che, Cienfuegos e gli altri sono partiti dal Messico per tornare a liberare Cuba dal regime di Batista e della mafia statunitense. Alla lettera, adesso, Granma è il titolo dell’organo ufficiale di stampa del comitato centrale del partito comunista di Cuba. Pinga.

La Habana deve essere stata una città splendida, anche se di aspetto squisitamente coloniale. Del suo antico splendore è però rimasta solo una pallida memoria, che si immagina dietro il velo di smog che offusca la vista. La città è ancora piena di colori, nascosti dietro lo sporco che la divora da dentro, ma due terzi degli edifici sono sventrati, quasi ci fosse stato un bombardamento, e solo una piccola frazione di quelli della Vieja è stata ristrutturata grazie alla grande opera de la Oficina del Historiador.

Stamani abbiamo preso un taxi guidato da un chirurgo (!), abbiamo viaggiato nel tunnel sotto l’oceano (illegalmente in sei in una auto da cinque), siamo andati a visitare una delle fortezze che proteggevano la città (Castillo de los tre reyes del Morro, che solo a dirlo mi sembra di essere Massimo Ceccherini ne Il Ciclone di Pieraccioni), abbiamo scelto la visita guidata. Bellissimo il castello, la storia, la vista a strapiombo sull’oceano, la finestra da cui il Che insegnava a leggere e scrivere ai guerriglieri… bellissimo il faro della fortezza. 

Il faro è stato costruito nel 1844 ed è tutt’ora in funzione, fa luce fino a 18 miglia dalla costa, ben oltre il limite delle acque internazionali, ai tempi della installazione della macchina funzionava con olio di colza, ora va ad elettricità. Il bello è che va, funziona ancora. 

Alla mia osservazione la guida mi guarda seria e mi dice: aquì en Cuba le cose ci devono durare a lungo. E poi alza gli occhi.

Ogni volta che faccio una domanda ad un cubano vinco una risposta così, che mi lascia come una che ha appena preso un ceffone in faccia. La guida del castello mi raccontava con fierezza che Che aveva promesso istruzione e sanità per tutti grazie alla rivoluzione: non ho avuto il coraggio di chiederle se la promessa sia stata mantenuta. Però in effetti qui a La Habana abbiamo visto tantissime scuole e pochissimi ragazzini in strada. Unica eccezione, il sabato pomeriggio, quando tutti gli adolescenti si riversano a fare le vasche a El Prado, con abiti succinti, bicchieri di rum, sigarette e sigari.

Dal castello del Morro ci siamo incamminati verso l’altra fortezza (che non abbiamo visitato per stremo di forze) e ci siamo imbattuti nel micromuseo a cielo aperto che commemora la crisi missilistica del 1962. Si possono vedere, esposte all’aria aperta, le ricostruzioni (e forse qualche originale smantellato) degli ordigni che tanto sgomento han destato al mondo, tra cui una copia esatta del missile che conteneva le testate nucleari russe. Ci sono dei cartelloni che raccontano la storia, con tanto di celebrazione dell’eroismo castrista nel difendere l’isola dagli yanquis (Yankees). Nessun riferimento a cosa sia successo dopo, a Kennedy o alle conseguenze dell’embargo, come in tutte le altre esibizioni storiche che abbiamo cercato. Il tempo qui sembra essersi fermato al 1962, per poi saltare al 1967 alla memoria del Che e riportare alcune immagini del Fidel più vecchio e recente. Niente altro. La storia dei cubani ce la possono raccontare solo i cubani, che patiscono la povertà in cui versano ma continuano ad osannare la rivoluzione senza dichiarare di cogliere alcuna contraddizione in ciò. 

Badate bene: non sono improvvisamente diventata un pensatore di destra, sono semplicemente ed onestamente incuriosita dall’equilibrio fragile in cui vive questo popolo, che sembra ad un passo dal baratro e versa davvero in condizioni igieniche che io, da possessore di reddito di livello 4, trovo penose, ma continua ad idolatrare questo regime che non permette lo sviluppo economico. In tutto questo, l’unica cosa che mi appare nitida e che emerge unanimemente è il rimpianto per Obama e quella apertura costruttiva, contro il disprezzo per Trump (che si legge con la u) e le ottuse scelte restrittive e belligeranti degli Stati Uniti, che stanno devastando questa piccola economia in difficoltà.

Dopo i missili, camminando, troviamo il museo militare, la casa del Che (assurta a museo che a me par quasi un parco giochi e fa un po’ orrore) e lo splendido Cristo bianco de La Habana. Bellissimo, nel gesto del pantocrator (sono sempre i miei preferiti) e con le infradito ai piedi, svettante su tutto il porto. Sono stata tremendamente dissacrante, ma mi sono fatta ridere da sola, quando ho immaginato un paio di havaianas colorate ai suoi piedi.

Scendiamo per la scala che porta al ferry boat ed ecco lo schiaffo in faccia di una favela: case a pezzi e diroccate, cani randagi ovunque, ragazzini che giocano a baseball senza mazza in strada (è l’una passata, la scuola sarà finita?), una bancherella di ‘street food’ vecchia come il suo oste. E poi il ferry boat: più che un ferry sembra un vaporetto sventrato da una mina, tutto di ferro, coi finestrini coperti da teli di plastica grossa, le sbarre anticaduta arrugginite ed un venditore ambulante di cibo che gira con un sacchetto di plastica in mezzo ai passeggeri. 

Dalla povertà del ferry boat alla opulenza turistica ricostruita di Plaza Vieja trascorre un attimo. L’unica costante rimangono le facce dei cubani ed i cani ed i gatti randagi.

Siamo tornati a casa in taxi, ieri. Abbiamo viaggiato su una Cadillac decappottabile rosa con la salsa sparata a bomba in mezzo ai semafori. Sembravamo i soliti cazzo di turisti bianchi che fanno il giro della città, strafatti dell’idea di andare a Varadero. E invece siamo scesi a Calle Jovellar 25, lasciando stupefatto anche il chaffeur (come si fanno chiamare, pronunciato alla spagnola), e siam venuti a casa a riposare un’oretta prima di andare a sentire il concerto di Natale a la Catedral, alla presenza del Vescovo.

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