In volo – Feb, 10 – Zulu Time Unknown
Bella, bellissima Shanghai, anche ieri. Forse più bella ancora, adesso che ci abbiamo preso confidenza.
Ieri, già, perché è stata una giornata che abbiamo fatto durare il più possibile e che è terminata all’una e mezza di notte (GMT +8), quando mi sono addormentata durante il decollo all’aeroporto internazionale di Pudong. Strano ma vero, ho dormito a fasi alterne fino a una mezz’ora fa e, quasi a farlo apposta, ora sono un puntino rosso più o meno sopra Mosca, a qualcosa meno di tre ore da Milano, con l’orologio che dice che sono le 04:17 di mattina (GMT +1).
Ieri è stata una giornata lunga perché avevamo progettato il check-out presto ed il volo partiva tardi: sembrava faticosa, a pensarla, ed invece è stata particolarmente densa e vivace, a viverla.
Diciamo che non siamo partiti proprio bene: al Fraser era previsto un intervento di manutenzione dell’impianto elettrico deciso da qualche autorità pubblica incontrovertibile (di cui non ho capito di più) per cui i piani dispari sarebbero stati senza corrente dalle 8 alle 10 e quelli pari dalle 10 alle 12. Il piano al ventiquattresimo, quindi, consisteva in sveglia, doccia, colazione da Sofia e poi chiusura bagagli e check-out per le 10. Questo perché ci avevano assicurato che gli ascensori avrebbero continuato a funzionare. Invece no: i cinesi ci han fatto ben due scherzoni! Niente ascensori e via la corrente dalle nove e trentacinque… E quindi? Coraggio! Barretta di avena e mela, acqua, chiusura ermetica delle valigie, giacche, zaini (e maiale) in spalla e giù fino al sesto piano a piedi, a vedere come butta da the Fresh Element, con risultato ironicamente sorprendente: piano pari, niente corrente, niente colazione.
Per fortuna però gli ascensori hanno ricominciato a funzionare, quindi almeno Luigi è riuscito a portarci giù le valigie senza che facessimo quarantotto piani a piedi.
Ho capito ieri mattina perché è tutta la settimana che mi guardano, me l’ha detto Nina al check-out: “Madame, you look like a princess”. Mi serviva questo viaggio per individuare meglio il percorso del guado. Ci ho trovato tutto lo scollamento insito nel narcisismo, che mi ha fatto sempre guardare me stessa con occhi non miei, e ci ho trovato l’integrazione dell’essere da come sono a come voglio, però vista da dentro, posto che amerò sempre sentire e cercare di essere bella come una principessa orientale. Ci ho ritrovato i miei Asian Eyes, in questo viaggio, e mi erano mancati tanto.
Dal Fraser al Four Seasons c’è circa un quarto d’ora di viaggio in taxi, poi c’è il check-in , il bagaglio in camera, Alessandro che arriva da Mosca… insomma, nonostante la fame blu abbiamo fatto a colazione a mezzogiorno (direi più un pranzo, vista la wagyu beef e i noodles di pollo e verdura), alla faccia del programma. Che poi mi chiedo: ma siamo riusciti a rispettarne uno, di programma?
Quasi alla fine del viaggio otteniamo una informazione importante: pare che nonostante tutto non sappiamo proprio di cinese cinese (Alessandro conferma che non puzziamo di aglio).
Ore 13, ultimo giorno a Shanghai, Alessandro appena arrivato, città battuta incessantemente a piedi… che fare di speciale? Stavolta ho mandato a quel paese la Lonely (lasciata in eredità ad Alessandro e Dandan per i loro giorni in città) e me la sono vista con Google, trovando un luogo particolare che non abbiamo visitato: Longhua Temple, laggiù a Shanghai sud, il tempio buddhista più antico della città (prima edificazione nel 260 AD, quindi una storia di tutto rispetto).
Sperduto in mezzo a grandi strade trafficate e casermoni grigi, il Longhua Temple si fa riconoscere dalla pagoda che stacca qualche nota di oro e rosso dal fondo bigio del cielo e da una gran nuvola di fumo che sale da dietro, sembra un incendio ed invece è incenso. Ci è piaciuto un sacco, forse più degli altri (anche se i giardini del Tempio di Giada sono impareggiabili), complice la neve che ha cominciato a fioccarci sulla testa insieme ai trucioli di carta dei tubi di incenso bruciati. Ci è piaciuta la campana che suonava incessantemente, ci è piaciuto il Matreya Buddha d’oro cui il tempio è dedicato (è il Buddha che ride, quello che mette addosso pace e buonumore solo a guardarlo), ci son piaciuti i quattro re e la stanza dei cinquecento arhat dorati, seduti l’uno accanto all’altro con cinquecento espressioni diverse.
Ci è piaciuto ciondolare intorno ai percorsi del tempio (sterminato, in effetti: wikipedia dice che sono ventimila metri quadri) e poi incamminarci verso la metropolitana intorno alle tre del pomeriggio.
Sarà che Luigi era molto preso dal chiacchierare con Alessandro della Cina, sia quella che abbiamo visitato sia quella che loro vivono per lavoro, ma ieri mi è andata di lusso: mi hanno lasciato timonare il pomeriggio con la cartina alla mano, è così che mi sono accorta di essermi ambientata, a Shangai. Volevo ritornare a Tiànzifáng, mi era rimasta la curiosità dell’esplorazione del quartiere degli artisti castrata dalla fame dell’ultimo dell’anno, i miei due cavalieri non avevano obiezioni, un cambio di metro ed eccoci lì, nel quartiere magico. Tiànzifáng è affollato, sempre, di quella calca assurda e scalpitante che si vede solo in Cina (Venezia a Carnevale in confronto è vuota). Nel quartiere dell’ex concessione francese, di stile orientale contaminato con qualche forma delle nostre come i mattoni rossi, Tiànzifáng è un dedalo di viuzze e calli che serpeggiano tra edifici bassi e rossi, fitti di vetrine di street food (granchi fritti, calamari in spiedino, zuppe servite in coppette di carta, lecca lecca di zucchero…), porte strette per entrare in negozi bassi che vendono seta, abiti per bambini, gioielli di giada, piante, confezioni di tè, locali di cui non si capisce la natura in cui ci sono vestiti, gioie, suppellettili per il rito del tè e gatti domestici che scorrazzano liberi. Tiànzifáng è vivace, pittoresco, affascinante e un po’ stralunato e ci sarei rimasta ore, ma non abbiamo resistito e siamo tornati nel nostro negozio del tè. La ragazza che ci ha servito ci ha messo qualche secondo a riconoscermi e poi ha sgranato un sorriso enorme e ci ha invitati a sederci intorno al tavolo a sorseggiare il tè con lei. Abbiamo bevuto il tè bianco, lo Jasmine bianco, lo Jasmine verde e poi ‘the dragon’, il tè verde puro. Anche Alessandro è rimasto profondamente affascinato dal rito del tè, anche Alessandro è uscito col suo sacchetto magico da riportare a casa. Io mi sono portata a casa un’altra verità orientale: dicono che quelli che parlano veloce sono brillanti. Wow. The bright princess. Molto meglio della bambola intelligente.
Una cosa bella davvero che torna con me dalla Cina sono questi incontri. Persone che ci hanno dedicato tempo ed attenzione, che hanno speso dell’energia per raccontarci ed insegnarci storie ed usi e luoghi di un mondo lontanissimo dal nostro e così profondamente affascinante. Capisco lo stupore che deve essersi portato Marco Polo a Venezia, assieme alla seta ed all’opportunità di business. Capisco il desiderio di prendere tanto di questa civiltà e contagiarne la nostra, per renderla più intensa anche in superficie, più simbolica, più leggera (e poi anche meno materiale, meno grassa, meno frenetica).
Uscire dal negozio del tè mi è parso un po’ come cominciare a tornare a casa, ma invece siam riusciti a fare anche delle ultime ore a Shanghai un tempo vivo come per le prime. A piedi fino alla metro 12 (all’addiaccio), sosta a sorpresa nel mall sotto la fermata della metropolitana alla ricerca del bagno (gli effetti del tè verde sono immediati), puntatina al Four Seasons a depositare le ultime tracce di shopping. Ho impacchettato tutto per esser pronta a partire (e meno male perché siamo rientrati tre minuti prima del mio pick up) e sono rimasta vestita da occidentale con gli asian eyes per andare a cena.
Due passi (probabilmente tre chilometri) in West Nanjing Road (la Montenapoleone dell’altra sera), che vista senza fame è davvero spettacolare. Una puntatina in farmacia, che ha trecento metri quadri di scaffali, ripiani e confezioni di prodotti della medicina tradizionale cinese e un bancone illuminato (piccolo) di farmaci convenzionali, tra cui abbiamo prontamente individuato Spidifen e Fluimucil. Un selfie col maiale, poi un altro, poi un altro maiale, le luci della strada, le luminarie, i grattacieli e le vetrine vergognosamente lussuose di Louis Vuitton, Cartier, Prada, Rolex e chi più ne ha più ne metta.
Cena a ‘The Peacock Room’, terzo piano di fronte all’albergo. Siamo un po’ tristi, è l’ultima cena. Però c’è Alessandro, che ne ha da dire e da chiedere. E c’è un locale accogliente, elegante e sofisticato, una cena eccezionale, e il vino cinese. Chi l’avrebbe mai detto? Ultima sera a Shanghai, non ho bevuto il tè (non è vero, dopo cena me lo sono fatto portare) e ci siamo gustati tre bottiglie in tre di un Cabernet Sauvignon e Shiraz locale (Skyline of Gobi) che abbiamo apprezzato molto (quando Luigi ha ordinato la terza bottiglia il cameriere ha detto: really?!). Per non farci mancare niente, abbiamo accetatto anche un intermezzo di gin tonic (ce l’han portato loro) con il gin al lemon grass, tra un secondo e un altro secondo. Superlativo. Abbiamo mangiato lingua di toro, serpente della foresta (con la pelle!), aglio nero, noodles ‘dandan’ alla Sichuanese e una decina di altre cose strane di cui non ricordo il nome. Abbiamo riso, bevuto, scattato selfie e spettegolato.
Poi, mannaggia, siamo dovuti partire. Cioè, io sono partita, Luigi è a Shaghai per lavoro, da domani. Tutto puntuale, tutto liscio: pick up, check in del bagaglio, passaggio del controllo accessi, verifica del passaporto e riconoscimento facciale, Luigi rientrato in albergo, volo partito in orario. E io lacrimoni a dirotto.
Dice il monitor qui davanti a me che il puntino rosso adesso sorvola Bratislava, sono le 05:43 a GMT+1 e tra una ora e un quarto è previsto l’atterraggio a Malpensa.
Mi sento sola, perché se ci penso lo so che non c’è Luigi in business a dormicchiare mentre io scrivo. Dovrebbe essere con Dandan ed Alessandro in cima a qualche torre panoramica a Pudong. Ho anche un po’ il magone, perché torno a casa e son sola fino a giovedì, pensavo che bastasse il piantino all’aeroporto e invece no, mannaggia.
Però… c’è Chopin che mi aspetta, ho un sacco di regali da recapitare, e perle e tè da sistemare e foto da guardare e, se mi riesce, una sinestesia di questa Cina meravigliosa, appena appuntata mentre camminavo, che mi porto dentro e che mi accompagnerà nell’eterna domenica che mi aspetta.