Shanghai, Fraser Residence – Feb, 8 – 18.01 (GMT +8)
Preparo il tè, accendo Lorenzo (Backup 1987-2012), mi siedo davanti alla tastiera e noto che questa potrebbe essere l’ultima volta che posto da questo tavolo. Esattamente ad una settimana di distanza, oggi ci tocca il pomeriggio valigia. Domattina trasferiamo i bagagli dal Fraser al Four Seasons, recuperiamo Alessandro in albergo e passiamo insieme le mie ultime dodici ore a Shangai. Mi fa impressione pensare che mi sono (forse) appena abituata al fuso e già devo ripartire. Qualcuno però dovrà pur tornare da Chopin.
Anche oggi la giornata è grigia, freddissima e minaccia acqua dal cielo ad ogni piè sospinto. Peraltro, a guardarsi attorno, pare anche che la scorsa notte abbia nevicato e che le strade siano già state tutte meticolosamente ripulite, come i bagni pubblici. La coda per entrare al Museo di Shangai, a 20 minuti dall’apertura delle porte, è già lunga come l’eternità. Unici caucasici in mezzo a centomila cinesi ci mettiamo disciplinatamente in coda e riusciamo, dopo un’ora circa, a superare gli screen di corpo e borse ed entrare nel famigerato Museo.
Non siamo riusciti a capire esattamente quale sia l’uso che ne fanno i visitatori ordinari: il museo è gratis ed è costantemente zeppo di gente, la maggior parte della quale però non è nelle sale ma seduta per terra o sulle panche nei corridoi comuni e trascorre il tempo sonnecchiando, parlando al telefono o mangiando qualcosa al sacco. Non siamo neanche riusciti a capire come mai un Museo che apre alle nove e dove per entrare si fa almeno un’ora di coda, abbia un ristorante che alle due è già chiuso. L’unica cosa che abbiamo capito è che non riusciamo ad incastrarci con gli orari cinesi e quindi a recuperare con facilità il cibo (cinese) che vorremmo.
Il Museo è pieno di gente sì, e ci sono tantissimi bambini, ci sono addirittura guide solo per bambini, organizzati in sciami di nanetti asiatici con abiti coloratissimi.
Il Museo racconta, con il bronzo, la scultura, la pittura, la calligrafia, l’arredamento, la giada e la porcellana, la storia della cultura e della tradizione della Cina e delle sue minoranze incoercibili, così come riconosciute dalla egemonia contemporanea. Racconta una storia ricchissima, millenaria ed impressionante, scandita dai nomi delle dinastie e degli Imperatori. Mi chiedo come la imparino i cinesi, a scuola, la storia, dopo le fasi rivoluzionarie e revisioniste che questo popolo ha attraversato nell’ultimo secolo, e se davvero collochino le epoche storiche nei nomi degli imperatori e delle dinastie (io mi ricordo solo Ming e Qing, che sono le ultime due ed abbracciano educatamente i seicento anni prima della rivoluzione). Cammino per le stanze del Museo, che peraltro sono iperventilate e quindi anche un po’ fredde, e continuo a visualizzare nella mente immagini de ‘L’ultimo imperatore’ di Bertolucci, che mi è rimasto impresso nel cervello quando ero piccolina al cinema ed è diventato la mia connessione cerebrale tra la Cina di Marco Polo e quella di Mao. Non penso alla politica, ma penso alla bellezza ed è curioso capire come questa civiltà sia riuscita a conservare tradizioni millenarie come quella della giada o della porcellana, pur avendo trasformato profondamente il proprio modo di vivere (NdChi: osservazione senza accezione di valore politico).
Il Museo di Shangai è colorato, anche se le gallerie e le stanze sono abbastanza buie, perchè sono colorati i vasi (molto più quelli di epoca Qing che non Ming), e sono colorate le lavorazioni laccate con la madreperla e l’oro, e sono colorati gli acquerelli ed i sigilli (generalmente rossi) con cui gli autori firmano pitture e poesie. Il Museo di Shangai è grande, ma facilmente percorribile. Ben disposto, ordinato, chiaro nelle indicazioni. Pur essendo gli unici occidentali nell’intero edificio, siamo riusciti a muoverci con leggerezza, salvo quando non abbiamo capito come versare il tè bianco e bere quello verde, facendo ridere quelle duecento persone che avevamo intorno nella Tea House.
Confermo che anche oggi ci guardano tutti, specialmente i bambini. E se mentre facevamo la coda io studiavo (e Luigi fotografava) i tratti somatici, le somiglianze e le differenze di questi tanti, tantissimi visi cinesi, tutti quei visi cinesi ci guardavano insistentemente, come se fossimo due alieni sulla Terra, mentre trovavano normalissimo sostare in piedi accanto ad una vecchietta con un peluche di Pokemon in testa.
Sentendomi così osservata mi chiedo come si debba sentire lo straniero, quello vero. Io lo sono solo per una settimana, in vacanza, e se voglio posso tornare al sicuro nel centro figo della città (il Bund) dove tutti parlano Inglese e l’occidente si può anche mangiare. Conosco persone, però, che sono emigrate e sono diventate strutturalmente straniere. Non credo che la leggenda dell’intercultura possa colmare il vuoto che rimane sotto ai piedi se si lasciano indietro le radici, specie se sono invise o disconosciute, peggio ancora se sono malvisti addirittura i tratti somatici.
Mi accorgo nitidamente di quanto può essere faticoso e degradante ‘sentirsi’ straniero oggi pomeriggio, quando per l’ennesima volta seguiamo il consiglio di quella stupida Lonely Planet e per la prima vera volta prendiamo una cantonata colossale. Usciamo dal Museo alle tre, la guida ci consiglia di andare a cercare un ristorante in Yunnan Road e non sapendo che altro fare, ci fidiamo. Pacco galattico, detto in slang meneghino: a due passi da People’s Square non c’è umano che parli Inglese, c’è una fila di vetrine di street food di cui non riusciamo a capire né provenienza né consistenza (e non possiamo permetterci il lusso di un mio malessere a trenta ore dal volo), c’è un unico ristorante aperto che espone pesce fresco pronto da cucinare (la Lonely diceva anche che qui il pesce è buono). Peccato che i gestori non capiscano né si sforzino di capire una parola di nessuna delle quattro lingue che in due sappiam parlare, che non accettino carte di credito (ma gli Euro sono apprezzati eccome), che si rifiutino di cucinare qualunque cosa non sia un granchio di due kg e che non ci siano altri strumenti che le dita per mangiarlo. Fin qui potremmo anche sopravvivere, se non fosse che questi sono i primi cinesi antipatici che incontriamo: ci hanno guardati male, serviti con sufficienza, spennato perchè si sono accorti che avevamo fame e non avevamo alternative, derisi perchè noi un granchio con le bacchette non sappiamo mangiarlo (meno male che però Luigi le mani le usa come si deve e mi ha messo nelle condizioni di nutrirmi). Il granchio forse era anche buono, ma non mi è piaciuto. No. In fondo però non era il granchio.
Capisco che quello che non mi è piaciuto è stato sentirmi straniera. Straniera così come quelli che Salvini docet. Capisco quello che ho sempre predicato, dicendo leggete ‘Ricordati che eri straniero’ della Spinelli. Capisco che continuerò a combattere la mia piccola battaglia di tolleranza e di curiosità verso le differenze, perchè nessuno si senta mai, ma proprio mai, così, accanto a me, specialmente se in difficoltà (e non esageriamo, noi non lo eravamo, avevamo solo fame).
Adesso vado a prepararmi per l’ennesimo esperimento culinario, prenotato stavolta da Nina, la nuova fidanzata cinese di Luigi (credo sia la decima della settimana). Vediamo come finisce la giornata. Vi lascio con le foto.