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Shangai, Old Town

Shanghai, Fraser Residence – Feb, 3 – 19.15 (GMT +8)

Luigi dice che il nostro è stato un arrivo miracoloso: aereo cinquanta minuti in anticipo, controllo passaporti (con rilascio permanente di dato biometrico di dieci dita) risolto in una ventina di minuti, bagaglio ritirato tra i primi, trasbordo al residence senza una riga (per questo non è una colonna) di traffico. Io non lo so, se è un miracolo. L’avevo detto che oggi (o era ieri?) è una giornata fortunata.

A guardarla dalla macchina, Shangai più che una città sembra un alveare. Ma un alveare che comincia molto, ma molto, ma molto prima dei famosissimi grattacieli e cavatappi che si vedono nelle foto.

Non so se sono davvero capace di raccontare, ancora: sono disorientata. Qui sembra di essere sulla luna, oppure in un film con Jackie Chan. Mi direte che è ovvio, ma provate a provare l’esperienza: qui sono tutti cinesi (o quantomeno asiatici), e sono tantissimi, ma proprio centinaia di migliaia in poche centinaia di metri quadrati (considerando che la città è deserta, secondo il concierge, proprio perchè è lo Spring festival, la notizia fa ancora più impressione). Le mosche bianche siamo noi (alla lettera): credo di aver visto sì e no sei visi caucasici tra le migliaia di persone che hanno cercato di calpestarmi. Neanche un nero o un latino, ve lo steste chiedendo.

Ci osservano tra il curioso ed il diffidente, alcuni anche un po’ schifati; ci parlano in Cinese guardandoci negli occhi come a dire ‘ma siete deficienti che non capite?’. Poi prendono il cellulare in mano e attivano il loro personalissimo GoogleTranslate: 汉语 to English. Farfugliano qualcosa di incomprensibile al microfono ed ecco comparire una frase scritta in Inglese (maccheronico ma comprensibile). Luigi ha adottato la controsoluzione europea dopo poche ore (ma la sapeva già, si è già abituato al terzo tentativo di negoziazione, mesi orsono). Io sto ancora cercando di parlare Inglese e di imparare il Cinese, solo che ho scoperto che siccome non lo so scrivere, non riesco neanche a ricordarmelo. Credo di aver imparato a dire ‘grazie’ e ‘prego’, perché somigliano ad una locuzione napoletana ed all’anagramma del nome di un Pokemon. Per il resto, la mia proverbiale memoria vale meno di zero, qui. A differenza della moneta (ah però, forse non era poi così male, l’Europa). Già perchè qui, per loro, noi siamo Europei. E forse qualcosa potremmo anche imparare, da una terra così grande che ne guarda una così piccola (e vecchia).

Siamo così strani, per loro, che una bambina chiede alla sua mamma se può farsi una foto con Luigi. Non so se mi spiego.

Insomma, qui non si capisce niente, ma proprio niente, ed è tutto bellissimo. Il che mi fa sentire infinitamente leggera, notizia che non è da tutti i giorni, ultimamente.  Tutto quello che avrei sempre definito kitsch qui è perfettamente intonato, compresa la mirabolante quantità di maiali rosa e lanterne rosse che troneggia sfrontata su pareti, tetti e sfondi di cielo. Mi direte che sono matta, ma questa città è attraente, affascinante e tremendamente sexy. Anzi, per essere tecnica, questa città è spaziale.

Fatto sta che il poco che posso fare, stordita dal sonno, dal fuso, dal Cinese, dal milione di persone che cammina su queste strade e dalle foto di Luigi in business class (appena allegate al precedente post), posso solo provare la mia versione ermetica, quella che fa la fascinosa radical chic e non saprete mai se si tratti di intelligenza sopraffina o di una figura retorica improvvisata tra la cacofonia e la allitterazione, casualmente riuscita bene in un cervello in cui niente succede per caso. Come se nella mia mente nutrita solo da input fosse scattato il corto circuito e ci fossero solo fotografie e video in time lapse.

L’aeroporto di questa città, da solo, è grande come una città. La città, invece, è grande come l’universo, visto da un alveare, che a sua volta è un quartiere della città.

Pensavamo che fossero tutti bassi, magri e taciturni. Invece ci sono anche dei cinesi grassi (anche donne), e col cazzo che sono taciturni: urlano, rumoreggiano e talora sputano con ardimento maori.

Nel nostro residence grande come il salotto di casa c’è tutto quello che ci serve (compreso il divano per lo svacco del principe), ma è sviluppato in altezza. Siamo al ventiquattresimo piano e finché non guardo fuori va tutto bene (@EvaBenvenga, un cameo per il nostro 2018… i prodotti del bagno sono gli stessi ottimi del nostro amato Hi di Bari).

La città è piena di telecamere. Sono ovunque, come le seppie in Matrix. Io ne noto una su quindici, è Luigi che se ne accorge, perchè lo disturbano ogni volta che fa una delle sue foto spettacolari ed urtano il campo visivo. Anche se sono offline mi chiedo dove sia la riservatezza per questi umani, schedati con dati biometrici, videosorvegliati mentre fanno shopping nei mall della Old Town, con WeChat supervisionato dal Governo (si noti la maiuscola) e la VPN costantemente attiva. Poi noi ci lamentiamo della nostra libertà e delle conseguenze delle regole sulla riservatezza.

Per strada, tra i maiali e le lanterne, ci sono dei cartelli rossi con delle stelle gialle. La Repubblica Popolare cinese si presenta con una assordante normalità agli occhi di una che quando pensa alla Cina si ricorda di piazza Tienanmen. Però poi giri l’angolo e c’è un tempio taoista, poi un altro, e poi un bazar. E poi un tempio buddista, ma di quelli veri. Con quattrocento anni di storia e gli avventori che accendono l’incenso e pregano (e tu ti senti una merda che li disturba).

Le strade della Old Town sono oneste e sono cinesi. Si capisce meglio via Sarpi, dopo averne vista una. Non è una esagerazione, è una forma di società. Direi di civiltà, se non vi fa troppa impressione.

Le perle, qui, te le tirano dietro (e vedrete il risultato, io me le compro tutte…)

Il tè, qui, è un bene prezioso (e delizioso). E lo sa bene la vecchina che ce l’ha fatto assaggiare prima che ne comprassimo diversi etti, sia di bianco che di oolong.

La pancia, qui, forse non fa male: abbiamo pasteggiato a dimsum di granchio e maiale, dimsum di verdura biologica, insalata di gamberi e granchio, verdure saltate (tra cui dei funghi porosi, deliziosi, sempre che io non muoia avvelenata tra qualche ora). E tè. Già, non ci crederete ma io davvero, qui, pasteggio gioiosamente a tè e penso sia bellissimo (cit. Tiziano Ferro).

Ai giardini non ci siamo arrivati in tempo, in coda tra pesci giganti, ponti a zigzag e persone che ci camminano addosso. Ci andiamo domani. Però abbiamo ispezionato l’Old Town, quella vera. Tra viuzze strette e curve, cavi della luce arrotolati come matasse di pelo di gatto, negozi affollati di chincaglieria di ogni tempo gestiti da ciccioni che fumano ascoltando video dalla cinoyoutbe, archi di pietra millenari (forse) ed icone di quello che una China Town può ricordare solo da lontano.

Di oggi mi ricordo il silenzio del tempio buddista, il profumo dell’incenso, i grattacieli in sottofondo affondati nella nebbia e nello smog, il bazar rosso ed oro, la puzza di aglio del tassista (che forse adesso ce l’ho anche io ma non la sento), il tè seduta su uno sgabellino per nani in una stamberga precaria con una facciata aperta su strada, i granchi fritti che non ho assaggiato, le lanterne rosse, le pagode, le luci stroboscopiche sul ponte del Yùyuán Garden, il maiale gonfiabile al bazaar, quella splendida versione del mio concetto di femmina (una Hepburn orientale) su una parete di pagoda (sarà kitsch mandarino ma per me è bellezza).

Il molto altro viene a minuti, perchè usciamo per cena.

Nel frattempo, porca vacca, è finito lo champagne che il negoziatore ha spuntato perchè io volevo scrivere e avevo bevuto troppo tè.

***

Per chi volesse vedere le foto (copyright di Luigi):

Luci rosse

Let’s go shopping

Black&white… and red

Doppia coppia

***

Ah già, la colazione… ho scoperto per caso che il posto per fare colazione che avevo scelto in aereo è al sesto piano. Quinoa, verdure saltate, uova in camicia e una bevanda calda di pera e lime alle sette e un quarto dopo dodici ore di volo. Forse sono nata dal lato sbagliato del mondo.

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