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Ricomincio da me, dovunque io sia (stata)

Ricomincio da qui, già, non da una effimera illusione, per parafrasare Malika Ayane.

Ricomincio da qui anche se non ci capisco niente, nè di quello che mi sta succedendo né di quello che mi è successo.

Qui è scrivere: il momento, lo spazio e l’atto del qui ed ora, che io evidentemente non riesco diversamente a praticare. Qui è anche il Malbec che sto per aprire, la materializzazione di questa storia che non so dove comincia e non so come finisce: amica, nemica, solidale e bastarda nella sua azione, la bottiglia. Quella che non finirei, che non finirò, o che non mi perdonerò di aver finito.  Come la sigaretta, in fondo. Che però, con la felicità, se n’è andata. E allora sarà così, che con la pienezza se ne andrà anche la bottiglia. Mi rimarrà il buon vino. E l’organetto della Bontempi (senza la canzone).

Vado avanti. Torno indietro.

Il gatto mi miagola sulla schiena perchè mi sente inquieta.

Non so di che colore volevo le unghie, ma stranamente oggi le volevo di nuovo lunghe. Non riesco a vestirmi, non riesco a spogliarmi. Non riesco a spiegare, perchè io questa storia la racconterei, se la sapessi. Invece non la so, la vivo. E non immagino cosa sognerò stanotte né di che umore mi sveglierò domattina.

So solo che:

  1. non ci capisco un cazzo
  2. ho bisogno di scrivere
  3. andassero a quel paese quelli che mi dicono che scrivere di sé espone a grandi rischi, io ho bisogno di scrivere. qui ed ora.

Ieri pomeriggio, fuori dalla mia aula preferita, ho incontrato una signora cieca lungo la via del 24 (il tram). Mi ha chiesto dove fosse la metropolitana. Le ho teso il braccio e abbiamo camminato fino a Crocetta. Trecento metri al massimo.

I colleghi, a diverso titolo, che erano con me, mi hanno detto ‘brava’. E io non ho capito.

Ma non era normale essere solidali?

Forse no, ed è qui che tornano la mia adolescenza, la mia paura ed anche la mia cura del prossimo. Faccio agli altri ciò che vorrei fosse fatto a me. O forse, piuttosto, che avrei voluto. Avrei voluto e non ho sentito. Che poi, come dice Domenico, magari è anche successo ma io non me ne sono accorta.

Cazzo, c’ho quarant’anni e mezzo e non riesco a ritrovare neanche un pezzo di me in questa me. Non ci capisco niente. Sento anche un sacco di dolore che non so da dove viene, non so come consolarlo. E sono a casa da sola. E devo anche lavorare, quindi non mi sento neanche in diritto di cercarlo, questo dolore. Da dove viene, che cos’è, perchè non se ne va? Come le rondini di Dalla. E le nuvole di De Andrè.

Ci deve essere stato un tempo in cui ho pensato che essere me fosse troppo pericoloso, ed ho seppellito un pezzo. Superperformativa, invincibile, intelligente (tanto sei brutta), superba (tanto sei antipatica), il perfetto calcolatore, figlia (non femmina) del grande disegno intelligente.

Solo che io questa cosa pensavo di averla già risolta, dal cerchio di fuoco pensavo di essere già passata (e che ne bastasse una, di volta). Pensavo che fosse tutto finito. E invece no. Ho trovato la felicità e ho piantato di nuovo la faccia contro il treno che ho inventato che mi dice che non ne sono degna.

Onestamente, e ve lo dico con l’umiltà di una che ha proprio girato le mani verso il soffitto, io pensavo che bastasse. Che bastasse aver lasciato il lavoro, la famiglia, le certezze e quei perfetti binari rettilinei che c’erano nel guscio. Pensavo che bastassero il tradimento, il divorzio, gli amici che non mi dicono che si sposano perché al matrimonio ci va Matteo. Pensavo che bastassero l’operazione F, una casa solo per me pagata sputando sangue, le notti da sola, i ladri in casa, le amiche che hanno paura e io no (o forse sì ma no ho diritti). Pensavo che bastasse essere passata sotto le mani di quello che mi ha tradita, di quello che mi ha picchiata, di quello che mi ha usata per salvare il suo matrimonio, di quello che aveva bisogno di passare il tempo senza sentirsi soffocato.

E invece no, non è bastato. Io sono ancora lì. Che Vasco e Rossi e Lorenzo mi raccontano perfettamente ma io non sono capace di essere me.

Solo che adesso non ce la faccio più. Non ce la faccio ad essere e non ce la faccio a non essere. E c’ho il prurito, in questo corpo che non è il mio, che però è il mio ma a me fa schifo perchè essere femmina fa paura. E ancora più paura fa essere trasparente.

Sei anni fa mio fratello mi ha regalato un libro, scrivendomi una dedica profonda che io non ho capito. Non l’ho mai aperto. Poi, una settimana fa, l’ho infilato nella borsa prima di uscire per andare a lavorare, proprio come facevo quando ero ragazzina.

‘Volevo essere una farfalla’ di Michela Marzano racconta una storia triste, brutta e infame e poi piena di speranza, di futuro e di possibilità. Volevo essere un farfalla, già. Che magari per lei voleva dire sottile e leggera, mentre per me vuol dire bellissima. Magari è la stessa cosa, visto che la bellezza è sottile ma persistente, leggera ma pervasiva, esattamente come il profumo perfetto.

Qualunque cosa volesse dire, Michela Marzano, non la sappiamo solo io e lei, la sanno tutte le altre, quelle che fanno da sempre a botte col corpo per non aver fatto i conti con l’anima.

Sto provando a fare i conti con l’anima, e per questo ringrazio Michela, che dovrei chiamare la prof. Marzano visto che insegna Filosofia alla Sorbona, ma per me è una amica che mi ha raccontato con coraggio una storia simile ed io le sono grata.

Non ho niente di grave, nessuna malattia, nessun difetto genetico, una intelligenza superiore. Ho una umanità profonda, sensibile, attenta. Sono scrupolosa, curiosa, accurata, delicata. Mi preoccupo, ho cura, ascolto, dono. Eppure? Eppure…

Eppure, eppure, milioni di serrature…  le ho usate tutte, alla faccia di Lorenzo, per chiudermi nel guscio per cui sono stata concepita. Un robot femmina, che è una contraddizione con le gambe.

Forse lo capisco adesso mentre lo scrivo. O forse non lo capisco, però se lo scrivo poi lo capisco meglio.

Se negli ultimi dieci anni ho cambiato più uomini che scarpe, negli ultimi due ho tamponato l’amore della mia vita e adesso non funziona più niente. In nome di sedicenti amori che non avevano cappello né scarpe, testa né coda, mi sono fatta usare, consumare, picchiare, insultare ed omologare. Ho ascoltato bugie, favole e scuse, sapendo perfettamente che era così e disconoscendolo, perchè sapevo di non poter essere amata.

Poi mi sono innamorata del mio simile. L’ho vilipeso, allontanato, maltrattato. Vade retro, Satana. Dio mi scampi dalla felicità.

Non ha funzionato. Ho trovato la felicità. Che poi è un uomo che mi ama (però ama me, non il genere). Luigi ama me intelligentissima, lunatica, fastidiosa, insicura, mutevole, accurata, ossessiva e con gli occhi a mandorla e le dita e le gambe lunghe. Luigi ama me, non quella che voleva che fossi. E neanche la strafiga che mi ero cucita (evidentemente non tatuata) addosso.

E io forse non lo reggo. E’ impossibile amarmi, perchè non ne ho il diritto. Ne ho infinite prove a suffragio. E anche nomi. Però non li scrivo, se no poi mi insultano.

Ecco, è qui che si spacca tutto. Smetto di fumare, stavolta davvero, e si spacca tutto.

La bellissima bolla di cristallo in cui io, strafiga, svolazzavo fino a un anno e mezzo fa si è schiantata al suolo ed io mi ritrovo (a distanza di tempo) a chiedermi da dove vengano lividi, tumefazioni e gonfiori vari che mi trovo sul corpo. E per quanta lunga e tortuosa e sottile sia la strada per trovare l’uscita… so che ci sono, ma so che non la vedo e non lo sopporto.

Quindi?

In dieci secondi mi sono fregata tutti i concetti, quelli che avevo. Avevo la figlia perfetta, avevo la moglie perfetta, poi avevo l’amante perfetta che neanche rompe i coglioni, poi avevo la professionista perfetta e poi avevo anche la consulente perfetta. Adesso di perfetto ho solo il modo in cui lo ricordo. Dico parolacce, faccio rumore, sono insubordinata, sostengo quello che penso, non riesco a raccontare le stronzate dei teorici del nulla eterno che fa marketing. Bevo troppo, ho le unghie tra il viola e il fucsia (ovviamente tutte) e ascolto musica discutibile. Mi piace! Però peso come un bisonte, vengo male in fotografia e mi sento un penoso tubero in un sacco di iuta. Come una tredicenne che si affaccia alla vita. E come una tredicenne mi ritrovo, oggi, a guardare la vita. A quarant’anni e mezzo.

Di loro mi ricordo: Paolo Vallesi e Alessandro Canino. Han raccontato la mia storia ed io non lo sapevo. E forse non l’ho neanche detto a nessuno perché un modello di femmina è una cosa seria e non si dispensa alle bambine.

Io però lo farò, sarò un modello (pur sbagliato) per le bambine che non lo hanno e lo cercano.

Vi invidio tutte, amiche mie. Quelle che giocano a beach volley e quelle che praticano yoga. Quelle che vanno a correre. Quelle che fanno la dieta. Quelle che il vino ommioddio. Quelle con i capelli lunghi, quelle con la cera in testa. Quelle che pesano settanta chili ma sorridono.

Vi invidio tutte, perchè io sono rimasta lì, quando ero bambina e devo aver deciso che c’era qualcosa di brutto nell’esser femmina. Quando ho deciso che non sarei mai stata madre (biologica), ma senza saperlo. Quando mi hanno detto che avevo gli stessi ormoni di un carciofo e ci ho creduto.

Questo affronto, ogni giorno. Che vorrei lasciare dietro di me amore e valore e sto sempre a pensare a come ho performato, che poi è sempre più del necessario ma a me piace così. Che vorrei essere di nuovo quella di ‘ti prendo e ti porto via’ che sono io, e mi ritrovo a fare l’adolescente balena nel sacco di iuta.

Che non ci capisco niente, non mi ritrovo in me stessa e non sopporto né i dogmi, né la pelle, né le rassicurazioni.

Non è che voglio imparare dai miei errori, è che proprio voglio imparare. Come si fa ad essere femmina, ad essere amata ed essere felice?

Se ne andrà. Questa ‘cosa’ se ne andrà. Come le sigarette. Se ne andrà come la bottiglia, con quattro, cinque chili e con la compostezza che non mi appartiene.

Mi rimarranno la leggerezza, la grazia e la bellezza della farfalla. Mi rimarranno i ricordi, la solidarietà coi deboli, lo spirito del guerriero e l’intelligenza di chi pensa prima di parlare, senza la cattiveria delle vittime, senza la stolidità degli ignavi.

Se ne andrà, però io oggi ancora così mi sento, che piango e mi si bagnano gli occhiali.

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