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La cumbia di chi cambia

Se c’è qualcuno che c’ha voglia di ballare, si faccia avanti. Si faccia avanti.

Se c’è qualcuno che c’ha voglia di cambiare, si faccia avanti. Si faccia avanti.

Io ce l’ho. Bomba e stereo. Ho fatto due errori.

Uno: ieri sera non sono andata a lezione di Yoga.

Due: tre settimane fa ho creduto ad una promessa (che era una richiesta) che sapevo mendace.

Stasera ci bevo sopra, sapendo che questo Ripasso ha molte meno speranze di me di sopravvivere, perché ho un problema col senso di colpa ed un rapporto equivoco col bicchiere.

Ho voglia di dire che il mondo è pieno di stronzi, che i modelli sono sbagliati, che il sistema è vittima di una distorsione… ho voglia di dire che è tutto sbagliato e io sono giusta. Ho voglia di proporvi di ascoltare ‘T’immagini’ di Vasco per rendere il messaggio, ma poi ci ripenso e capisco che non è sempre domenica, le madri sono nevrotiche e pensarci sarebbe come credere al fatto che uno lasci la moglie per l’amante. Non capita. Son fantasie che credono alle favole, quando le favole servono a costruire la speranza, non la sovrastruttura che sostiene la società.

Allora faccio reverse engineering delle mie voglie e penso a quelle vere: quelle cui mi sembra di non poter dar seguito per mancanza di tempo, quando invece potrei. Eh, ma le difficoltà? Eh, ma la felicità?

Trattasi del dibattito costante tra il benessere materiale e quello esistenziale. Pensiamo sempre al secondo, vince sempre il primo. Perché una cosa bella domani abbiamo sempre tempo di farla. Ecco, io penso che di tempo non ne ho più: tra tre mesi compio quarant’anni e continuo a non sapere né il giorno né l’ora, al giro di boa manca un venticinquepercento del vissuto e poi dopo che cosa faccio? il consulente che voleva fare il pescatore? Forse è stupido. Più stupido che bere un Ripasso alla fine di una giornata di merda. Tutto questo perché, se penso ad un pescatore, mi viene in mente quello di De Andrè. Magari posso fare qualcosa di buono anche prima che all’ombra dell’ultimo sole.

Ho fatto due errori. Cazzo.

Non posso porre rimedio, ma posso non ripeterli. Non ho fatto quello di cui avevo bisogno, non ho fatto quello che volevo (e ho anche bucato qualche dose della mia boccetta di fiori). Ehi ehi, bambina, tu fai ingegneria di processo. Reverse engineer the phenomenon.

Mi son distratta e non ho concentrato la mia energia sulle cose che per me sono importanti: il corpo che si monta la testa, lo yoga, il modello di reingegnerizzazione dei processi sulla felicità.

Passandoci addosso gli oggetti, mi auguro ci rimangano i concetti: ho un solo minuto da perdere per cose per cui non valga la pena?

No.

Ho il coraggio di dire basta?

Non lo so, ma la paura vive nell’anticamera del coraggio, se sa dove andare, lo trova, anche se dorme.

Faccio un gran casino, perché ondeggio tra il fascino del virtuosismo dello scrivere un libro e la bassezza del piegarmi alla volontà amebica di chi assimila wikipedia ad un deliverable consulenziale. Ma questa è tutta e sola la solita merda in cui sono abituata a nuotare.

Invece c’è lo spazio.

Ci sono tre giorni in casa in cinque che fanno energia e non entropia.

Ci sono medie del sette (su dieci) che hanno dietro performance eccellenti (è tutta una questione di equilibrio sopra la follia).

Ci sono mattine che si fa l’amore e si potrebbe non andare al lavoro, che nessuno di noi due è un medico.

Ci sono foto di un album che si possono cambiare perché la felicità ha tante facce e nessuna casa.

Vi dirò, ci sono anche momenti in cui sei il più intelligente e tutti lo sanno e hai fatto una cosa eccellente in un tempo impensabile e comunque, cazzo, non va bene lo stesso… e… se ti alleni un po’… forse fai la conta degli sfigati nella stanza che non han capito, perché è una questione di qualità e non una formalità (*G.L. Ferretti cit*).

Se uno solo di voi mi sta leggendo, vi prego, trovi un modo, domattina, di ricordarmi che il mondo è perfetto e che posso seguire il suono dei miei passi verso un mondo d’altri tempi dove posso credere che ci sia tempo abbastanza per rimediare (*cit*).

Rifletto adesso su ciò che asserivo stamani, con la voce rotta dal pianto, ai margini di un parcheggio in un posto di merda come SestoSG davanti all’ufficio delle Entrate che non c’è più: per questa cosa sono tutta sbagliata, ma io a me piaccio così e non voglio essere diversa.

Rifletto adesso su quei dieci secondi in cui, a domanda, ho risposto: sì, il fumo mi infastidisce, perché non fumo più, ma stai qui, ti dirò se è grave.

Io sono cambiata, ora il mondo è perfetto e ci sono anche io.

Perfetto perché se questo lavoro mi fa schifo posso lasciarlo, lo stile vale più del denaro.

Perfetto perché se la mia amica lontana torna a casa e non mi avvisa, nonostante la mia richiesta di perdono, vuol dire che non le servo più.

Perfetto perché so amare, so essere onesta, so dedicare e ho appena visto, con nitore, che su queste doti mi rende più felice e ricca scrivere un libro ed un modello, che fare il mio annoso lavoro (quando è inutile).

Grazie (in rigoroso ordine alfabetico) ad Aldo, Dani e Veru per l’occasione.

Grazie (in rigoroso ordine anagrafico) a Diego, Paolo e Lorenzo per la consistenza della possibilità dell’amore.

Grazie (in rigoroso ordine biblico) a Renato ed Annamaria per la dotazione iniziale a cui non posso che resiliere.

Grazie alle mie maestà (la mia e la Sua, pur principesca) per tutto il resto, quello che fa la cumbia di chi cambia.

Al vile che stamani mi ha detto che ho un problema relazionale, rispondo che milioni di serrature non riescono a tenermi chiuso il cuore: io sono esattamente così come mi mostro. Onesta, sincera, coerente, difettosa. Colpi di fulmine che fanno impazzire le persone. Mi piaccio così. Vuol dire che vado bene così, e se non… non è un mio problema.

Fuori da qui c’è un mondo d’altri tempi (anche se non è pop).

Non ci sono errori. Ci sono scelte.

Le mie ballano, coi PlanetFunk, e la boa rossa più vicina e lontana e sexy del mondo, sulla voce di Giuliano Sangiorgi.

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