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Epifania, 2017

Un giorno singolarissimo, oggi.

Credo di aver fatto bene a non disfare l’albero di Natale e lasciarlo a fare luce, perchè i Re Magi pare abbiano trovato la strada per arrivare e lasciare i loro doni. Sono doni dalla forma singolare, in effetti. Liquida e calda come certi lacrimoni incontenibili ma preziosissimi, io credo.

Un giorno lunghissimo, oggi.

Un giorno di quelli miei, in cui faccio un sacco di cose e ne sento di più, che poi mi fanno male, male, male. Male allo stomaco, male ai polmoni, male alle dita.

La lista infinita dei miei non avrei dovuto e dei miei non so che fare mi ha divorata non appena ho smesso di fare qualcosa. Un attimo di panico. Una decisione istantanea: salgo in bici.

Faceva un freddo boia fuori, nonostante il sole, e non è che Segrate-San Donato sia la più suggestiva delle strade da percorrere, però lì c’era una famiglia a non aspettarmi (sorpresa), il freddo aiuta a pensare, pedalare tira fuori un po’ di endorfine.

Beh, in cima al ponte sulla Rivoltana la catena della bici è uscita dalla sua ghiera. In condizioni recenti mi sarei arresa e sarei tornata a casa, a piedi, con la coda tra le gambe, il corpo congelato e la frustrazione a diecimila giri.

Poi mi sono ricordata di me.

Mi sono ricordata che sono un guerriero, che sono coraggiosa, che sono intelligente, che posso tutto quello che voglio.

E Dio sa come, con un freddo boia e piena di moccioli e schifo, mi sono unta tutte le mani con l’olio della catena e ho guardato e ragionato e attentamente mosso pedali e bici e dita e catena fino a che non sono riuscita a rimetterla a posto.

Io, da sola. Perchè sono molto meglio di quello che sono diventata.

Sono arrivata a destinazione, mi son presa le coccole dei miei cari, sono risalita sulla bici, sono passata dall’Idroscalo e mi sono incantata a guardare il Resegone nascosto dietro le foglie secche, il laghetto artificiale e la città. C’era un canottiere che si allenava. Un silenzio infinito. Mi sono messa a piangere. Un po’ di commozione e un po’ di paura.

Perché quando uno si salva si commuove, ma poi c’ha anche paura. Eh già.

Quindi è un giorno singolarissimo, questo. Decisamente l’Epifania, degno seguito di quella dello scorso anno.

***

Adesso sì che me la sento, quindi, di scrivere.

A chi si è chiesto, o mi ha chiesto, perchè non scrivo più, non sapevo cosa rispondere.

Stefania mi ha insegnato che la felicità detesta le parole, e certamente ha ragione. Ma non è solo quello. Ho passato gli ultimi sedici mesi correndo e non con le gambe. A fare fare fare fare mi sono persa un pezzo. Solo che quel pezzo ero io, e per poco non facevo crack di nuovo.

Mi sono ripresa per i capelli, già. Allora, vediamo cosa conto nell’inventario che di solito faccio al solstizio e stavolta tocca di Epifania?

Giorni lavorati: almeno 260. Notti insonni, forse 100. Tempo speso parlando Inglese, più della metà dell’anno (ma lavoro in Italia). Un trasloco. Equitalia. Nazionalità con cui combattere:14, con una netta prevalenza di Americani e Tedeschi. Cartelle esattoriali gestite: 2. Tasse pagate: non ve lo dico ma erano proprio tante. Mesi di dieta per curarmi: 3. L’helicobacter pylori, la gastrite, la colite cronica e la disbiosi. Una trasferta a Göteborg, una a Dusseldorf, una a Lisbona, non so quante a Roma in meno di cinque mesi. Persone che mi hanno chiesto un parere gratis: troppe. Rami secchi tagliati: almeno un paio (forse tutti quelli che c’erano).

Però ho trovato l’amore della mia vita, vivo in una casa bellissima, curo 30 metri lineari di fiori, mio fratello si è sposato, ho smesso di fumare, posso fare 80 km in bici e cucino divinamente l’astice alla catalana.

Quello che stona, nel conto, sono le telefonate ed i messaggi a cui non ho risposto. Gli amici che ho dimenticato di avere. I silenzi lunghissimi a cui io stessa mi sono sottoposta. L’angoscia spaventosa di essermi cacciata in un tunnel (avendo paura del buio) e non avere la più pallida idea di come uscirne.

Io non lo so come ho fatto. So che ad un certo punto è diventato tutto buio, sempre più nero. Non mi accorgevo più nemmeno di quanto enorme sia la botta di culo della felicità e di quanto importante sia celebrarla ogni giorno. Penso di aver trattato male tutte le persone che si sono interessate a me. Non ho parlato, non ho gridato, non ho pianto. Non ho fatto niente, come se aspettassi di morire lavorando. Come se io stessa mi fossi reclusa ai lavori forzati in miniera perchè pensavo di non aver diritto di essere felice.

Beh, sapete che c’è? Fanculo all’impostore che occupa un piccolo spazio della mia umanità: io non lo so come ho fatto a salvarmi, ma ce l’ho fatta.

Non so come è successo, ma il mio guerriero interiore si è alzato in piedi, nudo, sporco, indebolito dall’inedia e incazzato nero con me. E’ andato a cercare Alice, la gatta e la locomotiva e le ha prese tutte in braccio portandole fuori dallo stanzino grigio in cui le avevo carcerate. Mi ha dato tanti cazzotti allo stomaco, tanti ma tanti e  forti ma forti. Ma forti ma forti ma forti abbastanza da farmi vomitare.

Poi ha sparato a palla ‘Gli spari sopra’ e ‘Salviamoci la pelle’ finché non mi sono svegliata dall’incubo.

Ci vuole un po’ per riprendersi, adesso. Non sono più abituata a sorridere, non sono più abituata a ridere di gusto, non sono più abituata ad inventare favole. Sono terribilmente abituata a fare di corsa, non a correre. Non sono più abituata a stare al telefono per chiedere semplicemente ad una persona cara come stia. Non sono neanche più allenata a scrivere bene.

Però si può fare. Se penso a quante cose posso ‘fare’, figuriamoci se non riesco a sorridere, ridere, inventare, correre, parlare al telefono e scrivere.

Quindi mi auguro buon viaggio verso il prossimo solstizio ed i miei primi quarant’anni, sempre con le farfalle sulla parete, un gatto che fa le fusa mentre scrivo ed il più bel sorriso del mondo accanto a cui svegliarmi ogni mattina.

***

un pensiero particolare a chi tira dall’altro capo del filo,

a chi mi chiede se ho voglia di mettere le mani sul suo libro,

a chi mi scrive ‘sono due anni che non ci sentiamo ma io ti penso sempre’,

a quei ragazzi dell’università di Bologna che mi hanno mandato una mail ieri e a quelli che ci hanno messo un like sopra (44 so far):

ci vuole pioggia, vento, sangue nelle vene e anche un po’ di sano culo.

 

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