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Goodbye Ground Zero

La musica si è spenta?

Non del tutto.

Il mio Mac non è dentro uno scatolone, posso ascoltare Lorenzo, Ludovico, Lucio ed ogni altra voce che mi accompagni in questa lunga, strana, notte che viene.

L’ultima notte che trascorro a Ground Zero come la prima.

Intorno, una parete verde e una libreria bianca, tutta vuota. Neanche uno dei miei bicchieri né una goccia di rhum; non ci sono i vasi coi sassi, non ci sono i fiori sul terrazzo. Però c’è Chopin che dorme sul divano, la musica che suona (bassa), la finestra aperta, un aereo che decolla nelle orecchie all’orizzonte.

Millesettecentoquarantuno giorni: quattro anni, nove mesi e qualche spicciolo di accoglienza, solidità, disordine e ricerca.

Goodbye Ground Zero, luogo della ricostruzione.

Dalla rimessa dei treni, la locomotiva a vapore è pronta a partire per il viaggio più lungo della sua vita, quello che comincia domani.

Tra queste mura sono cresciuta fino a diventare me, ho scritto come mai prima, ho studiato un sacco di cose e molte di più ne ho imparate.

Tra queste mura sono passati visi, anime, sorrisi e lacrime. Tanti silenzi quante note. Tanti attimi d’intensità quante notti insonni.

Ho amato ogni singolo angolo di questo piccolo nido colorato, dalle finestre grandi alle nicchie inutilizzabili.

Mi son sentita a casa subito, appena sono entrata e non c’era niente tranne l’orribile mobiletto del bagno (dismesso).

Mi son sentita così a casa che ho deciso tutto e cambiato tutto in pochi minuti almeno cinque volte in quattro anni.

Sono arrivata qui, un pomeriggio assolato. Ho visto il terrazzo e ho detto: questa è casa.

Costava così tanto che mi veniva da piangere.

Non mi sono chiesta come farò: l’ho fatto (grazie Marco!).

Mi ricordo quando ho fatto i buchi sul muro per appendere le tende (ma Chi, io?!). Mi ricordo quando mi son seduta per terra sul terrazzo deserto e ho pranzato sul pavimento, guardando la corte qui sotto. Mi ricordo quando Anna ha colorato questi muri, mi ricordo quando Sara si è rotta la schiena con me a pulire tutto per permettermi di traslocare in ventiquattro ore.

Mi ricordo quando son tornata a casa alle otto di sera dopo una sterminata giornata di lavoro con un enorme vaso per l’orchidea da appoggiare sopra la lavatrice.

Mi ricordo il mio primo compleanno qui, con pochi amici e tanto prosecco.

Mi ricordo quando ho appeso la Femme Endormiè di Picasso sopra al letto. Mi ricordo il primo Natale e il mio maggiordomo danzante appoggiato sul mobile sopra la tv, rosso contro verde.

Mi ricordo quando sono entrati i ladri ed io sono arrivata nel mio nido devastato e non riuscivo neanche a muovermi. E mi ricordo la faccia di Gianluca che è arrivato in dieci secondi a soccorrermi.

Poi ricordo centinaia di cene, notti in piedi a lavorare, colazioni sul terrazzo con la brocca del caffè fumante e sempre il sole, fuori.

Le cimici, le cavallette, le vespe a ferragosto e un sacco di farfalle, alcune delle quali alla Vigilia di Natale.

Le amiche intorno al tavolo, le amiche sul tappeto. Un brunch per il mio compleanno, una mattina di Capodanno, una Epifania, un venticinque aprile. Le amiche, già, alcune che vanno e vengono, alcune che, per fortuna, non mancano mai.

Le grigliate di ferragosto (al piano di sopra).

I photoshooting nel weekend, i workshop per le startup malriuscite, Mattia che arriva vestito da lavoro e si fa una doccia, lasciando la sua giacca nel mio armadio (che è ancora qui dopo tre anni), l’ascensore lentissimo.

I ritorni da Genova con una casa sempre calda ed accogliente che mi ha aspettata, ogni volta, con la valigia e tanta rabbia impotente addosso.

I talloni di Anna sopra la testa, le urla della zoccola russa alle due di notte nell’appartamento accanto, le incursioni dei ladri condivise con chi, come me, ha combattuto per avere una casa propria e bella nonostante la paura.

I fiori bianchi e le bacche rosse degli alberi qui fuori, e chi me li ha portati in dono. L’unica spremuta di limone che non mi sono preparata da sola. Un pigiama nel cassetto vuoto del comodino dall’altro lato del letto.

Goodbye Ground Zero, goodbye. C’è un tempo per ogni cosa nella vita, e questo è il tempo di andare. Ma buon dio se me la son goduta la strada, qui.

È stato un vero incanto.

Ho messo via tutte le cose e questa è ancora casa. Quasi che i muri attorno potessero fare la differenza tra qui ed ora ed il resto del mondo.

Sono tornata ogni volta a casa ed è sempre stata casa. Magari troppo piccola, pur sempre la mia casa.  Quel posto che diam tutti per scontato, finché non siamo senza.

C’è stato un tempo, tanto tempo fa, in cui mi sentivo a casa solo nella mia Smart a noleggio a lungo termine. Mai quieta, mai paga, mai ferma.

Qui ho scoperto il silenzio, la solitudine tonda, il senso del tempo che non passa mai.

Qui ho imparato a dire: no, grazie. Qui ho cominciato a scrivere in un altro modo.

Qui ho appreso il senso del verbo amare.

Ci sono stati giorni che c’è stato da scegliere se pagare la spesa o la benzina. Ci sono stati giorni in cui il futuro non era nebuloso: non si vedeva proprio. Ci sono stati giorni di così grande solitudine che niente sembrava aver senso, tranne il mio prezioso, faticoso e a tratti rarefatto lavoro.

Ma poi sono passati (ed io mi faccio un onesto e sincero culo così perché non tornino più).

Tu, mia piccola isola verde e lilla col nome della devastazione da cui si può solo ricominciare, sei sempre stata qui. Nonostante le alluvioni, il terremoto in Liguria che ha fatto tremare la porta e spostare il tavolo, nonostante i ladri, nonostante le milleseicento notti da sola… sei sempre stata la mia casa.

Domani vado via, già. Mi auguro che chi verrà dopo di me si occupi di te come ho fatto io. Del mio terrazzo, della mia camera, di quella sala da ballo che è il mio bagno. E mi auguro che sia lieto, gentile e premuroso coi miei amati vicini, come loro sono stati con me.

Goodbye, Ground Zero. Ti lascio un pezzo del mio cuore e ti porto via con me, nella mia nuova vita. Col mio sorriso e i tuoi colori.

#cantodell’amore

 

 

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