*** Su Asian eyes, Giovanni Allevi, mai vera come oggi***
Sto in questa cosa, faccio l’unica cosa che so fare: la racconto. La riscrivo, per il vero, ripartendo da quel cupo pomeriggio di tanti anni fa.
Ascolto un pezzo che amo tantissimo e che una volta qualcuno mi disse rievocare per sua stessa sonorità il profondo dolore di una donna con gli occhi asiatici, come i miei. Riscrivo un vecchio pezzo, di quelli che raccontano un posto dove mai avrei voluto, né dovuto, tornare.
Il dolore, il mio, è una tenaglia stretta intorno allo spirito, una vena sottile di acido che mi percorre il corpo, una maledetta lacrima rovente che non vuole uscire. Sento un peso sordo in fondo al petto, un morso sanguinolento alle viscere, una bolla nella mente che mi obnubila e faccio più fatica del solito a parlare. Se mi siedo e mi concentro, lo percepisco nitidamente: mi fa male la schiena, ho freddo, stringo le mascelle e mi si spegne lo sguardo, fino a che non si inonda e illumina di lacrime.
Qui, ferma, nella posizione del loto, riesco a guardarmi da fuori: vedo il mio cervello che schizza impazzito alla ricerca di soluzioni. Poi scandaglia bei ricordi che non trova più e ricomincia a pianificare vie d’uscita. Peccato che da qui, col solo cervello, non si possa uscire: si tratta piuttosto di aspettare che passi, con pazienza e forza, e di sentirlo tutto, ma proprio tutto, il male che passa lurido attraverso le arterie.
Il dolore che sento è una Vergine di Norimberga in cui mi si è rinchiuso il cuore, piena di chiodi che lo trafiggono e mi impediscono di muovermi.
È un succo gastrico terribilmente acido che rigurgita sotto la lingua rendendo tutto amaro e corrosivo. È aria rarefatta in un pomeriggio di sole.
Sono incredula, traslucida e cerco furiosamente soluzioni, da bravo cecchino amante dei rompicapi e degli ottimi globali.
Ho il cervello che gioca a scacchi con l’anima cercando invano di mandare un pedone a regina e dare scacco matto.
Continuo a chiedermi: perché? E poi mi viene in mente Gesù, che lo sapeva come andava a finire, che anche lui ha pregato: Padre, fa’ che non passi da me questo calice. Ecco, se non ce l’ha fatta lui, come potrei farcela io?
Pesa, la mia piccola croce: l’angoscia.
Padre, quanto è maledettamente amaro questo calice. Quanto è violenta e forte l’angoscia.
Mi impasta la bocca, mi schiaccia forte al suolo, mi taglia la carne con lame velenose. Mi fa ascoltare per ore la stessa musica triste e ansiogena, spigolosa, nella sua infinita armonia. Mi fa tacere.
Lo stomaco è stretto, il respiro aggrovigliato, il cuore batte forte il suo urlo di dolore contro le pareti di casa, l’angoscia palpita nell’aria, buia, furiosa e amarissima. Oggi non mi lascia, non se ne va. Del resto, è domenica.
Adesso sono qui, in un silenzio assordante, e non sento niente. Sono usciti tutti, i miei demoni, e mi abbandonano alla mia inquietudine, a guardarmi e ascoltarmi. Adesso, in questo preciso istante, sento solo silenzio, anche se sto ascoltando il piano che suona.
Il silenzio mi fa più paura di qualunque altra cosa, più della notte, più delle urla lancinanti, più delle lacrime furiose, più del battito martellante.
Mi fa paura ma anche stavolta, anche se potevo evitarlo, anche se ho cercato di prevenire il danno, non mi difenderò.
E poi, passerà la nottata.
Nel frattempo, lascio la porta aperta e aspetto che tornino. Tutti e quattro.
Il dolore, l’angoscia, la collera, il silenzio.
I miei demoni.