sulle note filmate dal vivo di *Vita spericolata*
Pensare che quando ero giovane Vasco Rossi io non lo potevo soffrire…
Pensare che avevo una perfetta, regolarissima, vita piena di regole e noia e bei binari dritti dritti su cui correre senza sbagliare un colpo…
E poi pensare che, cresciuta pop e diventata jazz, mi son sentita dire ogni giorno, per tredici mesi: ‘Ascolta questo, ti piacerà’.
La mia storia con Vasco Rossi comincia così, con ‘L’altra metà del cielo’ postata via dropbox: ho sentito per la prima volta Incredibile romantica con una voce all’altro capo del telefono e ho capito.
Però poi no, non ci riuscivo ad ascoltarlo. Una come me, per ascoltare Vasco Rossi, deve sentirsi al sicuro.
Ma c’era un venticinque aprile, una gita in moto clamorosamente interrotta da una gomma bucata, una grigliata improvvisata sul terrazzo, due bottiglie di Lagrein e un paio di occhi sottili, socchiusi, che accendono lo stereo e cantano. I miei adorati occhi sottili che cantano sorridendo ‘Va bene, va bene così’ mi hanno spalancato l’anima a tanta sonorità mai esperita prima, fusa nelle parole border line di un pazzo decadente e un po’ nichilista che racconta la vita così com’è, a porte in faccia, schiaffi forti, lividi, botte, emozioni, deviazioni e tanta tanta energia.
Mi ricordo una sera a cena qui, maggio 2013. Seduti intorno al tavolo spalancato, in otto, a mangiar pesce e bere bianco, che a un certo punto son partite delle note stranote e si è acceso un mistico silenzio tutto cantato. Neanche una sbavatura, neanche una pausa. Tutti con gli occhi semiaperti e gli sguardi persi, a recitare Siamo solo noi come se fosse un Padre Nostro ed io che vi guardavo sbalordita, amici miei che siete cresciuti con Vasco, vivendolo sulla pelle come il sole che brucia.
Ecco, la mia storia con Vasco è andata così, che io non lo potevo soffrire e invece l’altro ieri vibravo dell’attesa febbricitante di tornare a San Siro.
La metro lilla, le all star senza lacci, l’iphone in tasca, le lenti a contatto. La faccia da adolescente, gli occhiali da diva, i jeans troppo larghi e neanche l’ombra della gatta in giro. A VascoLiveKom2015 può andarci solo la guerriera, sudandosi tutte e quattro le birre ed anche due mezze bocce di vino senza fare una piega, col Chi bello stretto, tatuato al centro delle spalle da Atlante.
San Siro. Prato. 18 giugno 2015.
Fa caldo, la birra va giù come l’acqua ed io guardo con attonita semplicità due emisferi del mio pianeta che si incontrano tra sessantamila persone e questa scena sembra la più normale del mondo: siamo in tre, ma poi undici. Io e dieci uomini, con una età variabile tra il 16 ed il 45. Perché la musica è una funzione generatrice di momenti magici.
L’attesa è lunga, ma passa in un attimo, tra abbracci forti, la coda al bagno, la trepidazione di chi sa cosa l’aspetta e di chi invece ha lo sguardo spalancato sul tetto rosso di San Siro ricoperto dello stupefacente blu della Milano d’estate.
Il palco è piccolissimo, lo spazio Vasco lo dà tutto alla musica, ed ha ragione lui. I pezzi di cuore son tutti intorno, non so neanche dove girarmi per l’emozione, fioccano foto e sigarette e chissà com’è… lo spettacolo comincia, sulle note di quest’ultimo album che tutti dicevano che non è ‘suo’, ma le canzoni le sapete già tutte a memoria.
C’è ancora il sole, fa quasi strano saltare sui pezzi più vivaci. Ha ragione Pisca: ‘vedrai Chiara, quando scende il buio, vedrai che spettacolo…’
C’è Vasco che canta: ‘Dopo dove vai?’
E San Siro risponde, unisona: ‘Stasera’
E Vasco canta: ‘Sai che non lo so?’
E San Siro risponde, ancora: ‘Bambina’
E la pelle trema. E la musica vibra dal basso. E c’è qualcosa di profondo e solidale nella voce unica e multiforme del popolo dello stadio, che rievoca assieme disperazione e coraggio e un po’ di molesta e perduta deviazione strutturale dal canone di una società che non sa riconoscere la diversità come valore.
Prima che arrivi il buio Vasco ci regala Guai. A me viene da piangere, perché la verità lo so è semplice però a un certo punto poi bisogna dirla, non è per onestà e neanche carità che dico che tra noi non è finita, non chiedertelo mai che cosa durerà davvero, la vita è troppo breve, ci sono delle sorprese che non ti aspetti mai...*
Il concerto è partito lento, vero. Lo stadio è stato timido, vero. Ma adesso è buio.
E Rewind esplode come una bomba in cielo, improvvisa.
Centoventimila piedi che battono il tempo al suolo, tra la copertura del prato e il cemento degli spalti. Centoventimila mani al cielo. Forse trema la terra. Non so. Ma la mia guerriera interiore non ha mai smesso di ballare, e non c’è niente di più vitale di tuffarsi nel pogo di dieci bestioni che pesan tutti almeno venti kg più di me e stanno cantando a squarciagola.
Poi dopo è tutto un climax ascendente di vibrazione assolutamente ineffabile. Non mi bastano le parole per raccontarvi della grande voce di San Siro che canta all’unisono Vivere, col terzo anello illuminato dalle piccole luci bianche degli accendini tecnologici del terzo millennio. Non mi bastano per dipingere le braccia aperte, gli amici che si stringono, gli sconosciuti che si sorridono, gli occhi azzurri di Vasco allucinati sul maxischermo a dare uno sguardo attento sulla vita, a metà tra il coraggio e la rassegnazione.
Il sudore dei corpi, la ressa che ci stringe tutti vicini, il profumo della Marijuana.
Il sorriso pieno di fiducia e passione di Lorenzo, che ha sedici anni e se li tiene stretti.
Lo sguardo acceso di Maurizio, nascosto sotto gli occhiali da sole, che esplode un fumogeno nel cielo.
Il sorriso travolgente di Luigi, che filma mentre anche io e non sa che io riprendo lui e lui me.
Pisca con gli occhi chiusi, Ciccio con gli occhi spalancati, tutti due annegati nelle parole e travolti dalla musica.
Gianluca che inspira forte, perché per lui vivere è vivere.
L’abbraccio d’acciaio di Luca, che è ancora qui vicino a me ed ogni tanto sembra che non sia mai cambiato niente.
L’unica frase che Vasco ci dice in tutto il concerto: ‘In bocca al lupo!’
Cerco una immagine, per raccontarvi Gli angeli, ma basta la canzone a riempire lo spazio delle lettere.
Cerco un colore, per dirvi di qualche minuto di pausa con la voce dello stadio che applaude e una lanterna giapponese arancio acceso che vola in cielo, prima che Delusa si fonda con Ti immagini e non ci sia nemmeno una piega di frustrazione, mentre noi ricominciamo a saltare, pieni di adrenalina e di certa vaga, allucinata, emozione.
Poi sì, l’ha fatto. Vasco ha cantato Sally. E nessuno mi spiegherà mai come un uomo possa descrivere così bene il modo in cui si sente una donna.
Ed io, quella che aveva vita regolare, son qui che canto che è tutto un equilibrio sopra la follia e mi vien da piangere dalla gioia della resilienza: qualcuno troverà il coraggio per affrontare i sensi di colpa e cancellarli da questo viaggio, per vivere davvero ogni momento, con ogni suo turbamento, come se fosse l’ultimo.
Lorenzo, pieno di speranza, che non ha ancora imparato sulla sua pelle che se non lo fai in fretta non ci sono tutte le porte di Wonderland da aprire, illumina la notte con un accendino, non uno smartphone. Proprio come facevamo una volta, quando non era ancora nato.
Mi guardo intorno. Ognuno di voi, pezzi di cuore in questo spazio immenso, stipati nella ressa di uno stadio straripante, ascolta dentro se stesso e canta assieme al suo prossimo, come se non ci fosse soluzione di continuità, per una volta, tra dentro e fuori. Cantate Siamo solo noi, come quella sera a cena da me. E questo è l’attimo perfetto, sacro ed inviolabile, che tutti i grandi appassionati mi hanno raccontato decine di volte.
Siamo solo noi, è vero.
Ha ragione lui.
Non posso che filmare, per ricordare sempre, come uno schiaffo in faccia, che la varianza non è necessariamente cosa sbagliata, solo una elegantissima misura della distanza da qualcosa che nella maggior parte dei casi è noia.
Mi guardo intorno, ancora.
Ha cantato Canzone, mi sono messa a piangere (mi dicono, e per fornire le prove mi hanno anche filmata).
Ha finito il concerto su Albachiara, come sempre (mi dicono).
Io però qualcosa di diverso ricordo, con un nitore impressionante, di questo finale di concerto. Inimmaginabile, non paradigmatico, fuori da ogni aspettativa: Vasco intona Vita spericolata ed io non so perché la so a memoria e sono anche andata a mettere il naso nel Roxy Bar.
Io, che ero progettata per la perfetta regolarità del piccolo mostro intelligente, mi trovo a quasi quarant’anni in piedi, sul prato di uno stadio, con addosso solo una maglietta rossa arrotolata al reggiseno, a cantare a squarciagola la vita che attraverso, quella che ho scelto intenzionalmente e consapevolmente di avere, e guardo con gli occhi pieni di curiosità il più piccolo di noi che, col suo sguardo illuminato dalla bellezza del futuro, alza la testa al cielo, i denti bianchi, il petto nudo e un accendino, e canta che vuole una vita di quelle che non si sa mai.
Chi glielo dice quanto è dura, la vita spericolata?
***
Non potevo soffrire Vasco Rossi, perché non sapevo cosa fosse la vita.
Adesso che lo so, sento ancora la terra che trema, il plesso solare che vibra, la testa che spazia tra il possibile ed il reale.
Penso che se ho scelto una vita spericolata, si vede che me la meritavo.
E ringrazio con tutto il cuore quelli che, accanto a me, mi hanno accompagnata e protetta fino a potervi raccontare oggi la magia di un concerto di Vasco.