La gabbia è un incubo di rara fattura per noi che siamo nati per volare nel cielo come i gabbiani.
La gabbia è una spina nel fianco, un mal di testa persistente, due mani strette intorno al collo. Anche se nessuno ce le ha messe.
La gabbia è, soprattutto, il ‘topos’ in cui abbiamo scelto di vivere. Ed è questo che fa impazzire più di tutto, perché la gabbia è una consapevole, irresponsabile, scientifica scelta di vita.
Ci sono stata una vita, dentro la gabbia. La mia era così fitta che l’ho chiamata guscio. Quel guscio così resistente agli urti, così elastico nella sua compattezza, che mi ha contenuta per anni nell’illusione che anche per me esistesse una stupida noiosissima ma rassicurante vita ‘normale’, senza che nemmeno riuscissi a capirlo.
Poi l’ho rotto.
Improvvisamente, senza preavviso e senza ritorno, ho rotto il guscio ed ho deciso che mai più avrei aderito ad un altro simile progetto di vita. Per poi scoprire che sono infinite le gabbie in cui si può scegliere di vivere, negando il proprio innato bisogno di volare.
La gabbia è una trappola autoimposta, un’illusione figlia dell’incertezza e della paura, una cella piccola e calda in cui ci si può rifugiare quando fuori fa troppo freddo e si teme di ibernare. Solidi sì, non fatti d’acqua. Non per ghiacciare al freddo polare dell’esistenza.
Per questo amo tanto ‘La casa in riva al mare’ cantata da Dalla assieme a Toquinho, perché ogni volta che la ascolto chiudo gli occhi e penso che quello lì nella cella ci è finito e forse non voleva, perché profuma di speranza, perché mi ricorda che dalla gabbia si può uscire. Per questo l’ho più volte dedicata ai miei pezzi di cuore in gabbia. Per questo, altrettanto, talora mi guardo con compassione. Io, e le mie piccole gabbie in cui talora decido di opprimermi.
Per questo invidio chi i sogni li sa fare, con splendidi occhi aperti. Chi sa dire ‘manca poco: vedrai che bella la città’.
Talora non son capace, davvero. Ed ogni tanto scambio una gabbia per una strada, come un topo davanti ad una trappola piena di formaggio, e mi ci infilo dentro, per poi patirne infinitamente.
Sempre meno, vero. Con sbarre sempre più rade, vero.
Ma sempre gabbie sono.
La gabbia è un posto bastardo: ti accoglie sorridente come ogni sana trappola nel mezzo di un rompicapo. Ti sorride, furbetta, come il quinto Sbagliato in una serata difficile, ti promette che sarà diversa dalle precedenti.
E tu aderisci, come un deficiente, pensando che stavolta vinci tu e che le sbarre spariranno da sole perché la libertà è una caratteristica inalienabile di certi esseri umani.
Peccato che non sia vero. E lo sai già da prima, ma fai finta di niente.
E lei comincia a stringere.
Prima toglie un po’ di luce, come se ci fosse un’imposta della finestra chiusa a tradimento dal vento. Quella si può riaprire: basta un gesto. Ma lo farai dopo, giusto per non dare troppo fastidio.
Poi toglie un po’ d’aria, come se si fosse chiusa anche una finestra, anche quella col vento. Ma anche quella si può riaprire: basta un gesto. Ma lo farai dopo, giusto per non dare troppo fastidio.
Bastan due gesti, vero. Ma li farai dopo, giusto per non dare fastidio. Non troppo, almeno, con le tue ali ampie ed ingombranti.
Solo che dopo è sempre troppo tardi, per un gabbiano chiuso in gabbia.
Non ci stanno le ali, non si spiegano.
Da tiepida ed accogliente la gabbia si trasforma in fretta in una fornace che si è mangiata tutto l’ossigeno che c’era in giro. E fa terribilmente caldo. Però si può ignorare. Come certi crudelissimi giorni di agosto che si suda e non si dorme, bagnati, pensando che domani andrà meglio e ci sarà un alito di vento. Senza sonno, senza vita. Senza il senso di crescere ed amare e dare.
La gabbia è la somma delle costrizioni in cui decidiamo di infilarci pur di non accettare di essere soli.
Una famiglia ottusa ed acclimatata nel paradigma dell’integralismo più gretto.
Un amico opprimente, egoista, esigente.
Un compagno geloso, possessivo, aderente.
Un lavoro inadatto, insoddisfacente, deprivante.
Ho mille esempi di come una relazione possa trasformarsi nella parte normativa ed organica di un organismo simbionte.
L’aria che manca, le ali legate dal filo spinato, una casa al piano terra col giardino oscurato da un’alta siepe.
Ma la relazione non sta nella gabbia, bensì nella fiamma.
Ci sono alcuni di noi, ma solo alcuni, per cui la gabbia non va bene.
Per cui la gabbia è la morte.
Io sono uno di quelli, una fottuta, maledetta, resiliente alla mia natura ed alla libertà.
E convivo ogni giorno con l’enorme frustrazione di essere quella che non si è adattata. Non ad un lavoro che non mi lascia esprimere la mia potenza, non alle relazioni amicali che mi consumano anziché accendere, non alla coppia che comprime anziché esplodere miliardi di particelle di energia positiva.
E allora respiro l’aria ventosa di primavera che scoppia fuori dalle grandi finestre di Ground Zero.
Osservo le mie recenti scelte e confermo che sono tutte giuste, pur se dolorose.
Affronto con coraggiosa onestà e qualche lacrima (che non vorrei) la frustrazione passiva che ne deriva.
Ed anelo solo a relazioni trasparenti, oneste ed emancipate. Svincolate, affrancate, libere.
Figlie della Σεισάχθεια, la liberazione dal giogo. Che nulla a che fare con la menzogna o con la violazione dei patti.
Credo nelle relazioni semplici e profonde, oneste e pulite. Quelle che permettono a ciascuno di essere ciò che è, dare quello che può, e prendere dalla propria, personalissima e ricca, sfera individuale ciò che c’è di bello o pessimo e portarlo a casa.
Come con la mia, di famiglia. Splendidamente, terribilmente incasinata nelle sue scelte.
In una casa senza sbarre, una casa in riva al mare, di quelle che dalla finestra si vede solo il mare, di quelle da cui si sogna un anello, parole dolci che s’immaginano, e non c’è nessun bisogno di andare via perché lì si sta bene.
Priva dell’oppressione della precarietà, della paura e dell’ipocrisia, che dan luogo solo a sbarre fitte e grigie e rigide.
‘Disse ancora la mia donna sei tu e poi fu solo in mezzo al blu…’
A questo credo.
Alle feroci, dolorose ed incredibili, pillole rosse di Matrix. Alle quali, con furia e fatica, io stessa appartengo.
Ricordando, ogni volta, che ha ragione Lorenzo:
‘la giustizia del mondo punisce chi ha le ali e non vola’.
Buonanotte, amici miei cari. ‘Na nait’, come dico io.
Vi lascio così, con una casa in riva al mare: