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l’eclissi e l’equinozio

Mi vien voglia, di nuovo, di fare la rivoluzione.

Peccato che stavolta non ci sia niente da cambiare, perché ho già cambiato tutto così tante volte che in questo momento non si intravedono vecchiumi da buttare, posizioni da invertire, novità da abbracciare dopo aver fatto un po’ di spazio.

Come dovrebbe essere pienamente evidente dal punto di vista semantico, oggi fronteggio un attimo di perfetta stasi nel bel mezzo dell’equinozio di primavera. E’ tutto così essenziale che non ho neanche un casino da combinare.

Son stata così brava a ridurre tutto ai minimi termini e non aver bisogno di niente che son costretta, contro la mia inquieta natura, a sopportare questo istante di noiosissimo equilibrio senza potermi opporre né ribellare a niente.

Mi vien da ridere, proprio perché mi vien da piangere e non ce n’è alcun buon motivo. Salvo l’assurdo patimento di un momento immobile che non riesco a tollerare e che passerà da solo domani mattina quando la vita ricomincerà frenetica come le mie dita sulla tastiera.

Poi arriva un messaggio, quasi un segnale dalla provvidenza, che dice: non fermarti, non fermarti adesso. Stasera è come una Polaroid di quelle che ho visto al museo del MIT: l’istantanea di dove sono arrivata e di quanta fatica ho fatto per esser qui. Non fare stronzate, bambina, non tornare indietro.

Non ricostruire nemmeno uno solo dei castelli di sabbia con le pareti di gomma in cui hai saputo vivere.

Tieni botta, bambina. C’è una intera bottiglia di Greco di Tufo per farsi del male, se proprio devi.

E allora accendo Rimmel, così piango più facile, verso un bicchiere, sbobino la matassa di emozioni e non faccio niente di stupido che mi riporti indietro. Vogliamo solo andare avanti, noi due: l’estate che mi vive addosso ed io.

Guardo quelle due cazzo di maschere blu appese alla parete verde e penso con intensità alle farfalle, quelle che non mi ricordo più. Rivoglio le farfalle, perché senza non ha proprio senso fare qualcos’altro che non sia lavorare e dare tanto tanto tanto amore a chi mi vuole bene. Ma bene davvero.

Tre mesi fa guardavo al solstizio d’inverno con la speranza, mite ma nitida, di costruire una vita sana, magari talora noiosa, ma stabile ed occasionalmente rassicurante. Rifaccio il giro del tempo oggi e capisco che lo sapevo già, che volevo un’altra cosa, che niente mi basterà mai, se non è assoluta, travolgente, spaventosamente viva ed agghiacciante.

Ripenso alle foto della luna scattate da sola, ai quindici giorni delle uniche vacanze che avrei potuto fare e non ho fatto perché ho assecondato il desiderio grigio e secco di qualcuno di vivere nell’abitudine della gabbia. Ripenso a quanto ho cucinato per amore di chi pasteggia e ricordo chi mi ha sorriso. Ripenso a quelle foto bellissime di me, e meno male che le ho fatte. Ripenso ad un nanetto infimo che sa che sono più intelligente di lui e che pensa di ridurmi al suolo con l’esercizio del  potere anziché della conoscenza, regalandomi l’occasione di coglierne un’altra.

La mostra di Chagall, il libro di Guido Meda, la gita al Cern a Ginevra.

Il mio adorato cavaliere oscuro che mi fa bruciare di passione e  mi lascia essere così come sono, tonda, stonata, maldestra, sinuosa, avvolgente e diretta e così mi apprezza. L’unico al mondo.

Ripenso a quei biglietti che ho comprato. Due concerti, la musica nel sangue. Diciotto aprile duemilaquindici, Negrita. Già.  E mi viene di scrivere ad Anna e chiederle se si ricorda Einaudi e Fresu, che quei due biglietti erano per un amore sbagliato ed al concerto ci siamo andate assieme ed è stato incredibile.

Basta valigie, ne ho le palle piene di dormire al mare senza vedere il mare. Vado e torno, anche se è terribilmente faticoso: basta investire in scelte che non sono proficue. C’è Ground Zero che mi aspetta, ogni martedì. La mia Ground Zero verde e lilla, la musica a bomba e Chopin con la coccolite acuta.

Un venerdì grasso di risate e speranza, che mi ricorda che per esser viva mi basta solo guardarmi.

L’ultimo album di Lorenzo che mi spara nel cielo le emozioni e mi fa aspettare il concerto da cui tornerò, sudata, pensando che milioni di serrature non riescono a tenermi chiuso il cuore.

Un amico che ha bisogno di aiuto, mia madre che scrive da dio, qualche fottuta canzone dei Negrita e la Malrboro, quella del dopo.

Il cuore che batte quando incontro un pezzo di cuore vecchio come me, strano come me, pieno di vita instabile e di ricerca metafisica che da ventidue anni mi bacia e poi torna a casa e facciamo finta di niente.

Una cosa nuova, che dico che non so se so fare e invece sarei stata eccellente, come al solito. Però, per una volta, mi misuro con calma con una cosa nuova.

La fatica del lavoro che non finisce mai.

Un genio che ho appena conosciuto e che identifica in me un suo pari.

I treni a vapore che suonano la sera, per portarmi sempre nella mia camicia, quella della locomotiva, potente e romantica.

Che dopo tutto questo, rileggo qualche migliaia dei milioni di parole che ho scritto per Andrea, riascolto *Magnolia*, e mi ricordo di quanto fosse bello e totalizzante amare e di quanto io ora sia impossibilitata a farlo per la paura di sentire di nuovo altrettanto dolore.

Che dopo tutto questo, rileggo i miei *avrei voluto* e mi rattristo, ma so che era vero e che io non posso morire annegata dentro una relazione che mi spegne le emozioni e mi relega in una gabbia perché qualcuno non ha voglia di provare a piegarne le sbarre pur passando tanto tempo in palestra a fare i bicipiti.

Ground Zero è pulita, semplice e senza orpelli. Non c’è niente da buttare nell’armadio, nel frigo, nella dispensa e neanche tra i soprammobili.

I libri sono tutti da leggere o da rileggere.

I lavori sono tutti a posto, non ho niente da recuperare.

La mia famiglia sta bene e si prodiga ad organizzare una Pasqua in cui sarò, come al solito, l’unica che è dispari in un sistema di pari.

Chopin siede sulle mie gambe facendo le fusa. Mi dice che mi ha perdonata anche se gli ho portato via l’ennesimo padre adottivo che amava lui ma non me.

In fondo, va tutto bene.

Suona *Gioia infinita*, non c’è niente da fare, mi sento un po’ vuota.

Zitta, ferma, in quiete.

Non sono abituata.

Così stanca di una vita che pochi apprezzano, con le lenti degli occhiali che non ci si vede più bene attraverso, ferma ad aspettare il futuro che sceglierò di costruire.

Come quel pomeriggio che stavo sulle scale del bar della Bocconi, seduta coi miei jeans e lo sguardo perso, e Rampa mi ha detto: ‘Chiara, che fai?’

E io l’ho guardato, ridendo, e gli ho risposto: *Aspetto il futuro*.

Buon Equinozio di Primavera.

Io vado a ballare.

 

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