Ho un conato di vomito.
Un rigurgito di acido muriatico fatto di rabbia cieca e sorda, uno di quei momenti di follia ben nota che mi porta a desiderare di distruggere tutto quello che ho intorno.
Eccola qui, una delle mie sorelle bastarde: l’ira.
Nasce con me, poco meno di quarant’anni fa, dallo stesso preziosissimo liquido amniotico da cui son sorti la mia pelle bianca e il mio coraggio e la mia acuta intelligenza priva di furbizia. Su questa faccia da bambolina flessibile, che ringiovanisce anziché invecchiare e le rughe se le mette tutte dentro, nella pancia e dentro le dita ossute.
Eccola qui, una delle mie sorelle gemelle, la più cattiva di tutte, quella che non doveva venire al mondo ma evidentemente quel giorno il Padreterno si era distratto e assieme alla terra mi ha riempita di fuoco. Solo che, talora, il fuoco è dannoso. Il fuoco può illuminare, riscaldare, allontanare le bestie feroci… ma può anche scottare, bruciare e persino uccidere.
E quel fuoco lì fa male fuori, figuratevi quello che può fare dentro.
Ho un conato di vomito, mi tremano le dita, mi si sono acuminati gli occhi, potrei spaccare tutto quello che trovo nel raggio di due metri da dove sto cercando di stare ferma, specialmente i ricordi appesi sul muro, specialmente quelli malintesi.
Non c’è un cazzo di niente da fare, quando arriva, la stronza. Devasta tutto ciò che incontra sul suo percorso.
Arriva improvvisa, l’ira, seguendo uno, due, tre pensieri normalmente terribilmente frustranti e che puzzano di ingiustizia. Arriva come uno spillo conficcato in profondità un po’ più su del plesso solare, una intramuscolo inattesa al miocardio. E non si manifesta subito. Cova qualche secondo, nutrendosi del mio calore umano, assorbendo tutta l’energia che mi pompa indomita e naturale nelle vene e così si gonfia. Monta come la schiuma nel lavandino quando c’è troppo detersivo per i piatti, focalizzando il pensiero su quanto di negativo e fastidioso l’ha contattata: sviluppa una serie di concetti altamente sofisticati con cui traduce frustrazione, senso di impotenza, ingiustizia e poi, quando è pronta a colpire, esplode come il tuono di un temporale in pieno agosto. Di notte.
E il mio corpo si trasforma, improvvisamente, in un’arma di distruzione di massa. Sottile e delicata come sono, senza preavviso, sento dentro la forza di un leone, la velocità di una scheggia impazzita, il calore sprigionato da uno scontro frontale. Mi si irrigidiscono le dita delle mani, il sangue mi scorre immediatamente al centro del cervello, la giugulare si gonfia, la voce si alza di cento decibel e si prepara a radere al suolo qualunque barriera si frapponga fra lei ed il suono.
Solo chi mi conosce bene, davvero bene, mi ha vista trasformarmi in una Gorgone. Ed io mi odio, quando sto così. Vittima innocente dell’esplosione incontrollabile ed infausta del peggiore dei vizi capitali che la vita mi ha dato, in dono.
Ho imparato, negli anni, che c’è un solo modo per vincere con questa stronza infame che mi divora l’intestino: devo guardarla in faccia. Questa puttana mi affronta sfrontata, col grugno in faccia e una bomba di fiamme ardenti nei capelli e mi spinge ad esplodere ed io la guardo dritta in faccia e la spoglio nuda. Non le resisto, non cerco di controllarla, non tento di ammansirla. La spoglio nuda nel cielo nero in cui sta per fiammeggiare, cercando di capire di cosa si sia vestita, da dove sia venuta, perché si sia presentata qui dentro di me, di colpo, e voglia distruggere tutto. La guardo dritta in faccia, sta zoccola, finché non abbassa lo sguardo, perché io sono molto più forte e più coraggiosa di lei, e la riaccolgo dentro di me.
Io la odio, la stronza, ma lei vive dentro di me: non posso respingerla, non posso negarla, non posso cancellarla. Se lo facessi, lei farebbe la rivoluzione, come ogni malsana minoranza incoercibile in un parlamento sedicente democratico.
Vive con me da quando sono nata assieme alle altre due mie sorelle gemelle, l’angoscia e la superbia. Stan qui dentro di me, sul fondo del profondissimo vaso che è la mia anima e sguazzano nel fango più cupo e viscoso nutrendosi del mio sangue. E non se ne vanno. Siamo nate gemelle. Vivono dentro di me. Stan solo buone, ogni tanto, a preparare il loro prossimo ordigno devastante. Il Gunpowder Plot, in confronto, è una nullità.
Il problema, grosso, è quando si presentano tutte assieme e decidono di ricordarmi che sono fatta anche di questo, mentre io cerco faticosamente di camminare nella luce portandone tanta di più intorno.
Ho infiniti ricordi, dell’una e dell’altra e della terza ancor più bastarda. Ricordi di quando sono stata così brava a schiacciare qualcuno con la mia superiorità sprezzante da raderlo al suolo. Ricordi di quando mi sono trascinata per ore e giorni senza dormire e senza mangiare, imbottita di sonniferi e frullati, scoprendo che non ho pensieri suicidi ma che li avrei voluti. Ricordi di quando ho urlato così tanto, di quanti oggetti ho rotto, di quando ho sbriciolato i miei occhiali nelle dita e ci ho preso una manica di botte da chi pesa almeno venti chili più di me.
Ma tutte assieme, tutte assieme, amici miei cari, sono impossibili da gestire. Mi levano il sonno e la fame, mi consumano tutta l’energia, mi avvicinano pericolosamente alla bottiglia, non per godere del buon vino ma per annegare il dolore atroce nell’ebbrezza più vana.
Stamattina non doveva succedere. Non era previsto, non era calcolato, non era giustificato.
Ho preso una decisione su cui rifletto da tempo immemorabile, che mi è costata fatica e coraggio, mi è costata energia. Ho pagato il prezzo della felicità, scegliendo di smettere di credere a qualcosa che non mi riempie di vita. L’ho presa con consapevolezza e rassegnazione, convinta che mi sarei sentita più leggera. E ieri sera sono uscita, ho sorriso, mi sono regalata la mia splendida me stessa, con un abito attraente e il cappotto da fiocco di neve. Ho goduto, del cibo, del vino, della compagnia. Ho bevuto, ho sognato, mi son sentita viva, vera e bella. Stamattina avrei dovuto essere serena. Serena, leggera, e terribile, come la mia migliore me.
E invece no.
Ho sbarrato gli occhi nel buio, ascoltando l’eco profonda del mio battito del cuore e la lama di ghiaccio acuminata, conficcata nel plesso solare, che mi fa ululare di dolore. Eccolo lì, lo riconosco prima che mi sbatta a terra, il grammo di angoscia che inghiotto quando soffro o ho paura. La mia sorella gemella più buia si è presentata come almeno altre tremila volte, nelle quattordicimila mattine in cui mi son svegliata da quando sono nata. Si è aggrappata forte al mio collo, con le sue dita fredde e ossute, e mi ha stretto forte forte la trachea finché non ho smesso di respirare. Muori, mi dice. L’angoscia mi recita il suo mantra cupo e lentissimo: muori, soffoca, annega nel muco viscoso delle lacrime che non sgorgano. Muori, muori da sola, che non ti meriti niente.
Io lo so come si fa, con lei. Mi abbraccio, mi aspetto, chiamo con una litania costante il mio guerriero interiore e gli chiedo di venire a prendermi in braccio e portarmi alla macchina del caffè. Anche se la stronza si mangia la mia colazione e a me rimane la fame che non so saziare perché non ho gola per inghiottire né stomaco per digerire.
Poi suona il telefono ed io ascolto. Qualcuno mi parla, mi dice: respira. Anche io me lo dico: respira. Ma non respiro. Poi piano piano il guerriero si sveglia e mi ricorda cosa fare. Poca colazione, poca poca, piano. Apri la finestra, fatti sbattere addosso il freddo furioso dell’inverno sul terrazzo col pigiamino sottile. E risolvi un rompicapo. Se il guerriero mi prende in braccio ed io trovo un rompicapo da risolvere, inertizzo l’angoscia. Non se ne va, ma io le tolgo il nutrimento. E lei patisce di inedia, per qualche ora. E ricomincio a respirare, piano.
Nessuna possibilità di accendere Lorenzo. Nessun alito della mia proverbiale, innata, gioia esplosiva. Suona Ludovico, stamattina, a Ground Zero. Lo so che non è finita, che tornerà, stanotte, che cercherà di fare lo sciacallo sul cadavere delle mie emozioni più pure. Ma intanto, adesso è passata.
Ed io posso cercare di far qualcosa.
Non ho trovato un vero rompicapo stamattina, e lei è rimasta lì, latente, ma ho pianto abbastanza da pensare di aver vinto io.
Ho cercato di lavorare, per distarmi. Si è presentata la superbia, la terza bastarda infame. Mi ha gonfiata come un tacchino dopato, mi ha ricordato che sono la più brava, che non devo piegarmi, che non devo cedere, che l’inettitudine è il peggior peccato dell’umanità e va schiacciata come l’aglio nella pancia di un buon pesce al forno.
E così mi ha soffocata di frustrazione.
Lei è più sottile delle altre, si insinua nei pensieri come una serpe tra i sassi, lenta, sinuosa ed infame finge di essere modesta e temperata e sviluppa immagini catastrofiche di ingiustizie che devo impedire. In climax ascendente. Mi fa pensare che io posso tutto quello che voglio. Già, peccato che non si possa piegare la volontà di un altro essere umano, che non lo si possa convincere di qualcosa in cui non crede. E io ne ho almeno due di esseri umani, di fronte, la cui volontà non posso piegare nonostante la mia indiscutibile, spaventosa, meravigliezza umana ed intellettuale. E così passo il mio pomeriggio congegnando aforismi di parole feroci con cui schiacciare il mio prossimo e la sua inettitudine, ripenso ai torti, alle delusioni, alle ingiustizie cui mi capita, talora anche quotidianamente, di assistere.
E mi sento impotente. Superiore, fantastica, fortissima e poi assieme incompresa, vilipesa, presa a schiaffi in faccia.
Seduta sul divano, in preda al fuoco di Sant’Antonio, mi sembra di impazzire. Non riesco a far niente, non riesco ad alzarmi, non riesco ad uscire, non riesco a mettermi un bel vestito e farmi passare questo attacco distruttivo di malessere. E non funziona la musica, non ce n’è. Lorenzo non si può sentire, le canzoni romantiche mi fan venire il vomito, quelle tristi mi fanno piangere, Dalla mi getta nello sconforto, Fresu è insopportabile, Einaudi mi angoscia.
Allora provo a dormire. Mi chiama mia madre, mi rimetto a piangere, mi ristendo sul divano e mi addormento per venticinque minuti.
E sogno.
Fanculo, maledetti i miei sogni.
Il mio sogno mi porta dal mio omeopata, con mia madre e la mia futura cognata, che mi guardano con uno sguardo di compatimento e superiorità mentre lui si incazza con me perché non so spiegargli cosa io abbia che non va e se ne va sbattendo la porta. Ed io mi scuso, mi scuso, non so neanche di che, ma mi scuso, forse di esistere, e lui non torna ma manda la sua stupida vecchia assistente che mi dice che è tutta colpa mia.
Mi sveglio. Sono sudata. Ho il gatto che mi dorme addosso e mi pesa sulle gambe e sono le otto e mezza di una maledetta domenica sera. Non ho fame, non ho sonno, non ho niente da fare e mi sento allucinata. Non è colpa mia, cazzo, non è colpa mia. E rifletto. E parte la sequenza dei pensieri malvagi.
Perché non è solo che non è colpa mia, è anche che tu sei un maledetto vile che non si è preso alcuna responsabilità, che non ha custodito né protetto questo gioiello prezioso che ti ho messo nelle mani, che costringe me a mollare il colpo quando io sono una che non molla mai. Un colpo l’ho mollato, vediamo se mollo anche l’altro. Vediamo se anche l’inetto privo di statura morale è capace di farmi mollare.
E mentre questi pensieri girano vorticosi nella mia testa, neanche so se fondati o meno, mi parte l’embolo. L’ira ha covato, silenziosa, il suo uovo di uranio e plutonio concentrati, mentre sognavo. Dura dieci secondi, forse quindici, il tempo in cui mi alzo dal divano senza neanche accorgermene ed improvvisamente sento una spinta incontrollabile a spaccare tutto. Gli occhiali, due libri da bruciare, due maschere da spaccare coi pugni chiusi. Obiettivi militari in ogni angolo del mio campo visivo, la testa infuocata, le mani che tremano, il telefono da lanciare a sei metri di distanza.
Cazzo faccio? Cammino. In tondo sul pavimento del mio salotto verde acido. L’ira si fa madida della mia grande, proverbiale forza e mi mangia la fame e il cervello e vuole diventare la padrona di casa e trasformare la mia domenica in un campo di concentramento.
Ma no, io non glielo lascerò fare. È già abbastanza dura così, che ho paura di andare a dormire e rimanere soffocata dall’angoscia. Devo fare qualcosa, devo fare qualcosa. E mi viene una idea.
Mi siedo, la guardo in faccia, la spoglio nuda, la scrivo. Così rimane qui e non mi accompagna alla notte nera. C’è già quell’altra che mi aspetta, nascosta dietro la porta della mia camera.
C’è già quell’altra ancora, che domani si incazzerà furiosamente perché come ogni brava Cassandra che si rispetti ho previsto quello che succederà e nessuno mi darà retta e io ci sbatterò, violentemente, la testa contro uno spigolo.
Già devo tenere buone quelle due, non voglio addormentarmi in preda al pianto isterico perché ho rotto dei bei ricordi come se fossero Horcrux della mia costante mancanza di equilibrio e poi svegliarmi, dopo dieci minuti, per l’ennesimo incubo.
Le mie sorelle gemelle, stasera, per mandarle a fare un giro fuori di casa, io le scrivo.
E amen se ci ho bevuto sopra mezza bottiglia e ci ho fumato un numero imprecisato e terrificante di sigarette. Mi laverò i denti e ci penserò domani.
***
Mi preparo la cena, mentre scrivo. Qualcosa di leggero, per non soffocare nei tanti bicchieri che ho versato. Me la preparo con tanto amore, quel che solo io so dare, e mi dico che teneramente, intensamente e sorridendo, mi amo. Perché me lo merito, tutto questo amore. E la prima che mi ama, fino a prova contraria, sono io. Con tutti i miei mostruosi, allucinati, vizi capitali compensativi di tanta energia rossa, gialla e verde e blu. Elettrico.
***
E già mi sento meglio, prima di rileggermi, mentre loro intanto son rimaste qui, nelle parole, le mie gemelle bastarde.
Ed io posso sperare di dormire qualche ora.
lancinante nella sua quotidianità fatta di passaggi e ripassi. Pulisce via l’animo e lo rende pronto per essere disegnato nuovamente.