*** dalla più bella definizione che un amico abbia scritto di me, sulle note di Terra degli Uomini, il collage di tutte le emozioni che mai ho potuto raccontare perchè dovevo rispettare il silenzio***
Mio padre dice che questa storia la devo raccontare.
Lascio scorrere il flusso dei pensieri isterici e il suono di questo frastornante silenzio, provo a mettere qui dentro le parole che ho.
Perché forse non ho niente altro, nella vita. Ma le parole, quelle, le ho.
Chiudo gli occhi, ascolto la sera umida fuori dalle finestre di Ground Zero, ci sento dentro il battito del cuore e scende una lacrima.
Accendo una sigaretta, siedo a gambe incrociate, e scende un’altra lacrima.
Piango.
Si, piango.
Lasciatemi fare.
Perché la cosa che mi fa più paura è il silenzio.
Il silenzio e il ticchettio incessante della lancetta dei secondi sull’orologio appeso sul muro. Non si vede, ma ticchetta.
Mi fa paura questo silenzio lungo, madido di sudore e di angoscia e il tempo che non passa mai.
Dai tempo al tempo, il tempo cura tutte le ferite.
Ma non passa mai.
Vorrei dormire sempre, come la bella addormentata nel bosco.
Vorrei dormire sempre fino a che non passerà tutto il tempo che deve passare.
Ma anche stamattina mi sono svegliata, coi morsi strazianti dell’angoscia in mezzo al plesso solare. Un dolore cupo, fondo e che diventa, piano piano, lancinante fino a che non mi alzo.
I pensieri che si affollano, deliranti, e il mio cervello che si rifiuta di visualizzare alcuna immagine.
Cerco di non pensare, respiro, poi sento male. Ricomincio a pensare, mi rifiuto, mi abbraccio, respiro. Non passa.
Non passa mai. Come il tempo.
Non mi piango addosso, sono solo addolorata. Stremata dalla tensione, strangolata dalla solitudine.
Siamo soli.
Soli nasciamo e soli moriamo, terrorizzati dall’esperienza e schiacciati dalla paura dell’ignoto. E soli, sulla strada, camminiamo tra il vento e la pioggia, la nebbia e la neve, il freddo polare e il caldo africano. Ce lo raccontano le canzoni, i film e le tragedie greche, e noi proseguiamo dritti, perché è così che va la vita.
Soli siamo e soli incediamo, pensando che ci basti, che possa andare bene anche così.
Che finché non lo senti, che sei solo, puoi anche non farci caso.
Che finché non ci fai caso, al fatto che quella esperienza ineffabile che hai provato non la puoi raccontare a nessuno, nessuno che ti comprenda e ti accolga, davvero e per intero, ti sembra tutto normale. Tutto ordinario, tutto vuoto e abituale e noioso e sterile.
Sterile, soprattutto.
Puoi camminare solo per una vita, senza farci minimamente caso. Diventi magari un po’ acido, un po’ cinico, forse un po’ privo di quella grande comprensione attonita negli occhi che hanno solo quelli che hanno saputo amare o che sono stati amati.
Poi, un giorno, per caso, capita che due spiriti viandanti si sfiorino ad un crocevia. Un soffio di vento, ed ecco che un riverbero di sole tiepido irradia improvvisamente l’esistenza.
Continuo a chiedermi se sia davvero così, come scriveva Rilke, che questo più umano amore che abbiamo talora la fortuna di trovare in questo consista: “che due solitudini si custodiscano, delimitino e salutino a vicenda”.
Non mi crede quasi nessuno quando lo racconto.
E dico un “quasi” in senso puramente matematico. Perché chi capisce quel “quasi” ha visto passare la stessa merda nei tubi, ha sopportato analoghi dolori forti e botte e schiaffi e gioie e ebbrezze e giri su questa terribile giostra che taluni chiamano amore.
Non mi crede quasi nessuno, perché tutti pensiamo che io già sia stata innamorata.
E invece no.
Se ripenso alla mia età adulta, ho appena imparato che il sentire può crescere, che può crescere il desiderio e rimanere ardente oltre la passione, che il sentimento può diventare atomico così tanto che da permeare quasi tutto quello che sei. E dico quasi in senso matematico, di nuovo. Tutto quello che sei, quasi ovunque, quasi zero.
Mi sono innamorata poco più di un anno fa, e me ne sono anche accorta. L’ho pensato e l’ho scritto subito.
Potevo rimanere ferma. Sì, potevo. Potevo passare oltre, come tutte le altre volte. Dolce, amorevole, liscia e dura come una lastra di granito.
Dovrei usare il congiuntivo, di imperfetto, ma preferisco l’indicativo, che è davvero imperfetto.
Sapendo perfettamente cosa sarebbe successo, potevo fare tutt’altro. Perché, cazzo, tutto si può dire tranne che io non sia intelligente. Potevo davvero fare tutt’altro.
E invece no.
Perché la vita ci sbatte in faccia se stessa con una violenza insopportabile, e non possiamo, spiriti immortali in questi corpi affetti dalla caducità, esimerci dal cercare la massima felicità che riusciamo a concepire.
La vita ci sbatte in faccia se stessa come una folata di neve ispida e un giorno, per caso, mentre uno cammina dritto nell’umidità quotidiana, solo come un cane randagio, incontra un’altra anima, consonante e antinomica, che profuma di essenze mai esperite ed evoca suoni di un altro tempo, di un altro modo dal proprio. L’anima altra nel mezzo del crocevia, l’altra possibile metà del cielo, ci fa sorbire, anche solo con la punta della lingua, il senso salato e ardente e faticoso di due solitudini che si fanno una cosa sola. E uno rimane così stupefatto e attonito che non riesce a non crederci, a quella madida fortunosa speranza che trasuda di felicità.
È successa una cosa così stupida, prevedibile e banale che sembra il copione di un film.
È successo solo che io ero sola e solida e incardinata su me stessa e che ero così bella che risplendevo di luce mia.
È successo che lui era l’uomo migliore che avessi mai incontrato, e che non mi fosse mai passato per la testa di pensarlo in un altro senso, perché lui era di un’altra. Sposato, onesto, fedele, padre.
È successo che eravamo in un perfetto equilibrio di affetto e stima e attenzione reciproca.
Io dicevo che eravamo amici, e ci credevo sul serio. Forse lui no, ma lo capisco solo adesso. Adesso che riguardo quei giorni e ricordo lui che mi ha gironzolato attorno per sei mesi, guardandomi con quegli occhi grandi e puliti in cui mai avrei potuto leggere altro che sincero affetto.
Poi la mia vita ha subito uno scossone, uno stupido improvviso scossone. Una telefonata di sabato pomeriggio, un lunedì di panico, un martedì di coraggio. Lui viene sbattuto forte dall’onda d’urto e mi propone una pazzia. Io non la faccio, la pazzia, ma gli rispondo che la farei.
E qui si stappa il vaso di Pandora.
Ci ho messo quattro giorni a capire che se mi fossi mossa da dove mi trovavo, seduta sul tappeto arancio di Ground Zero a bere rhum da sola con le lacrime agli occhi, ascoltando ‘Baciami ancora’ e ‘Compagni di viaggio’, mi sarei innamorata.
E mi sono mossa lo stesso.
Non siamo stati travolti dalla passione, non siamo stati schiacciati dall’ebbrezza del desiderio adulto e irresponsabile. Noi abbiamo scelto. Deciso di infilarci in questo tunnel. E abbiamo pensato e agito prima di trovarci annodati l’uno all’altra in un abbraccio invisibile e fortissimo da cui non riesco più a divincolarmi. Io.
Abbiamo scelto di parlare di questa cosa che c’era già, forse appena nata, forse fuoco ardente sotto la brace.
Andrea ha scelto di dirmi cose che nessuno mi aveva mai detto prima e che io mai avrei immaginato. Mi ha confessato pensieri e immagini che mi hanno illuminata di luce e di speranza, io che non ne avevo più.
Io ho scelto di spalancare il cuore, di nuovo.
Ricordo come fosse adesso ogni singolo minuto di quei giorni, in cui senza capire e senza pensare mi lasciavo andare all’emozione bellissima di sognare, di pensare al domani.
Perché, cazzo, capita che un giorno, per caso l’anima e il sangue si incontrino, si sfiorino, e scelgano, tra la consapevolezza e la follia, di non volersi più separare. Capita che improvvisamente si dà un nome alle cose e tutte quelle scintille, già scoccate da tempo, non si possano più ignorare.
Capita che ti guardi negli occhi e trovi in quelli dell’altro riflessi i tuoi, e che se ti giri e guardi avanti, la strada, scopri che il mondo lo guardate nello stesso modo e allora lo volete guardare assieme.
Di questi infiniti stupidi assurdi tredici mesi di ordinaria follia ricordo esattamente tutto, e dio solo sa quanto li vorrei dimenticare. Ricordo che mi è sembrato di rivedere il mio passato scorrere di nuovo. Guardavo lui e rivedevo me stessa, da fuori, dibattermi feroce e impotente nella gabbia di un matrimonio infelice in cui ero perfettamente incastrata senza prospettive né vie di fuga.
E metto insieme tutte queste cose ed esplode una gran confusione nella mia testa. Perché sono libera, sì, come una farfalla, ma le mie spalle sopportano il peso del passato e non riesco davvero a sentirmi leggera come una libellula. Sono ancorata al suolo della vita con il peso di tutte le scelte che ho fatto e delle decisioni che ho preso.
Ho guardato Andrea, in questo medio tempo, sbattere forte la testa contro le sbarre della gabbia ed ho rivisto me. Ho osservato scorrere tutte le diapositive di un passato recente che sembra remoto ma fa sempre male, rivissuto ogni singolo attimo di un matrimonio che si sfascia e non sai neanche come è successo, riassaporato l’amaro che lascia in bocca il tradire, molto più che l’essere tradita. E conosco bene tutte e due le malattie.
Lo guardavo che soffriva e rivedevo me stessa, zittina, a negare l’evidenza.
Ci ho messo una vita a capire che dovevo lasciare Matteo e fare un’altra strada. Ho attraversato il desiderio, la paura, il tradimento, il senso di colpa. Ricordo notti intere passate a cercare di recuperare sicurezza, a mendicare la reinvenzione di un amore morto da tempo immemorabile.
Ricordo angosce, e sudori, e respiri affannati. Ma molte meno insonnie che adesso.
Negavo l’evidenza dei fatti con una pertinacia che non è da me. Mai per una volta mi sono chiesta il senso del verbo amare. Mai per una volta ho approfondito la natura delle mancanze della nostra relazione.
Ci ho messo una eternità a guardarmi nello specchio, e un’altra eternità a capire cosa dovevo, o meglio, cosa volevo fare.
E solo passata quell’eternità sono riuscita a farlo.
In quei giorni dello scorso marzo, quando ho scelto di spalancare le porte del cuore, tutte queste cose sono tornate su in disordine sparso, e ho cercato di avvisare Andrea dell’incubo in cui si stava mettendo con le sue stesse mani. Gliel’ho scritto, detto, raccontato. Con le mani, con gli occhi, con le parole scritte.
Io lo avevo avvisato, in effetti. Come lo potevo evitare io, lo poteva evitare lui. Lui soprattutto, perché sapeva che non avrebbe mai avuto il coraggio di fare un’altra scelta. E bisogna prendersi la responsabilità di fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi, e non viceversa.
Nonostante questo, nessuno di noi due si è fermato. In effetti, io ho fatto tutto e solo quello che avrei voluto fosse fatto a me.
Lui invece è andato, e tornato.
Andato e tornato.
Otto volte, o erano sette?
Oggi dice che non se ne è mai andato davvero. Già, c’ero solo io, in fondo, da questa parte. La guerriera. Quella che ogni volta che cade si rialza.
Lui avrebbe potuto, sapendo che non ce l’avrebbe fatta, semplicemente lasciarmi vivere. Invece no.
Ho creduto, stupidamente, che qualcosa potesse cambiare. Ho creduto, stupidamente, alle parole, ai gesti, alle prospettive.
E ho sbagliato.
Cazzo.
Ho voglia di urlare perché sono chiusa in gabbia, completamente inerme.
Perché non riesco ad uscire da questo dolore delirante che mi gonfia le vene e mi riempie, a turno, di disperazione e di collera. Che sono l’una e l’altra le perfette manifestazioni dell’impotenza.
Ogni mattina mi sveglio, col morso delirante dell’angoscia che mi attanaglia. Mi abbraccio piano, fino a che non diventa così forte che non riesco più a stare stesa. Allora mi alzo.
Mi alzo e mi trascino ad accendere la macchina del caffè.
Alzo un braccio, piano.
Riempio d’acqua il recipiente della centrifuga, ma non ci vedo bene e verso tutta l’acqua fuori. Forse sono senza occhiali. Maledetta la mia maldestrezza, maledetta.
E mentre asciugo, piano e distrattamente, l’acqua che si è versata sui cavi, scende una lacrima. Poi un’altra, poi un’altra.
Son grosse, son calde, mi disidratano la pelle.
Ho sete.
Bevo. Tra il sudore e le lacrime perdo un sacco di liquidi.
Le lacrime non smettono, il morso ricomincia. Si è spostato dal diaframma all’intestino. Che schifo.
Davanti allo specchio guardo il mio viso. Sembro grinzosa, con gli occhi gonfi e le guance rigate. Non riesco nemmeno a lavarmi il viso. Mi guardo e non mi riconosco.
Dov’è finita la mia elegante e travolgente bellezza?
Sprecata.
Già.
Già lo si disse, più volte, nella mia vita.
Non singhiozzo, quasi strillo. O forse, davvero, sto urlando. Chissà se i vicini mi sentono.
La disperazione attonita del silenzio e del vuoto, la solitudine profonda, la consapevolezza di aver avuto l’occasione di assaggiare la felicità e di averla perduta è come una lama sottile e affilata che taglia piano i tessuti degli organi interni. Li incide, meticolosamente, uno dopo l’altro.
E io piango questo dolore enorme, incontenibile, insensato.
Penso che se prendo il telefono smetto di piangere. Ho sempre smesso di piangere davanti a qualcun altro. E invece no. Prendo il telefono e mi si rompe la voce.
Non riesco a parlare. Singhiozzo, mugolo. Mi faccio compassione da sola, che strana tenerezza.
Cos’è successo? Niente, non è successo niente di diverso dal solito, solo che io non ce la faccio più.
Non ho mai desiderato di morire. E io adesso voglio solo morire.
Il dolore mi fa sentire indifesa. È una sensazione che non conosco. Nessuno mi può proteggere da questo torrente fangoso di emozioni schizoidi che mi attraversa. Mi sento sola, impotente e indifesa.
Io, così coraggiosa. Io, così forte. Io, così potente. Sono ferma, sola e senza alcuna protezione.
Come se fossi nuda per strada in pieno inverno.
Sapevo dal primo minuto che questo sarebbe stato amore. Sapevo che avrei perso corazza, armi, difese e strategie. Che avrei smarrito controllo e potere. Non sapevo che mi sarei schiantata come una bici contro un albero sull’impotenza più nera.
Perchè non sono sbagliata: ho diritto di essere nata così e di meritare una minima, essenziale attenzione.
Ne ho data così tanta, di attenzione.
Ho prestato rispetto ad ogni piega di umore, ad ogni alito di vento, ad ogni battere di ali di farfalla. Nemmeno nella disperazione più nera ho avuto il diritto di chiedere che qualcuno facesse questo per me. Non posso credere di non essere degna nemmeno di questo.
Eppure sembra proprio così. Che devo annegare da sola nella paura, avendo scelto da sola la strada più difficile. Che ho dovuto riguardarlo in faccia, il mio adorato guerriero maori, il giocatore di rugby, quell’Andrea di cui non ho mai potuto dire il nome ad alta voce, di nuovo, anche oggi. E sentirmi ripetere parole che ho già sentito, scuse che per me non hanno senso, al solo scopo di permettere ad un altro essere umano di sciacquarsi la coscienza nel fondo delle mie lacrime, rendendo le mie occhiaie ancora più scure e le mie gambe ancora più tremanti.
Colleziono parole e immagini, che forse si chiamano ricordi. Non lo so perché non riesco a vederli bene.
Il mio corpo si rifiuta di lasciarsi andare, di ricordare.
Poi se provo a ricordare, esplodo in un pianto dirotto e senza controllo.
Io non capisco, non capisco, io non capisco.
Cazzo, io ero lì. Non mi sono sbagliata stavolta.
Non ho cercato verità che non c’erano, non ho immaginato risposte che non ho mai ricevuto. Non mi sono accontentata di risposte piccole a domande grandi.
Io ero lì e prima c’erano gli occhi, che dicevano cose che non avevo mai sentito dire, non a me.
Poi c’erano i gesti, che erano coerenti.
Poi sono arrivate le parole, e in quel momento ho smesso di difendermi del tutto.
Come facevo a pensare che gli occhi, le mani e la voce dicessero assieme: ‘ti amo’ e non fosse vero?
Come facevo a temere davvero che sarebbe tornato e poi non avrebbe nemmeno avuto il coraggio di andarsene? Che avrei dovuto farlo io?
Il 28 ottobre Andrea è tornato. Di nuovo. Maledetta me che mi ricordo tutte le date, come non ha mancato di ricordarmi anche oggi.
Come era ovvio, prevedibile e suicida.
È tornato e ha aperto le braccia.
Diceva che aveva deciso di arrendersi.
E siamo risaliti sulla giostra in salita, come due pazzi isterici ma felici.
Lunedì 11 febbraio è poco più di due mesi fa.
E io sono ad un appuntamento difficile a fare una cosa difficile cercando di trovare una strada per lavorare ancora. È lunedì 11 febbraio e mi arriva una mail con titolo “da leggere quando sei fuori di lì”.
“Sono qui con te, sempre.
Hai ragione quando scrivi che qualcosa è cambiato. Sono cambiato, mi sento migliore di prima e più consapevole Posso dirlo anche io: è una vita che ti aspetto.
Ti penso in continuazione, voglio sapere cosa ti succede durante la giornata, cosa pensi, cosa sogni ogni singolo secondo. Ho il cuore pieno di te.
Non ho paura, io non ho più paura adesso. Perché ogni difficoltà, ogni momento buio so di poterlo affrontare insieme.
Spesso ripenso a quante volte ti ho fatto stare male e anche se probabilmente dovevamo passare da li, non me lo perdono. Non riesco ad accettare la possibilità di ferirti in qualche modo, di non renderti felice di non fare qualcosa per strapparti un sorriso.
E’ amore? beh non riesco ad immaginare qualcosa di più bello coinvolgente e di cui non posso più fare a meno.
Ho un sacco di cose da dirti, che non ti ho mai detto o forse si, senza aprir bocca però.
Preferisco farlo guardandoti negli occhi e tenendoti tra le mie braccia.
Nell’attesa ti bacio molto.”
Non me lo sto sognando, ho fatto copia e incolla dalla gmail.
Era tutta la vita che aspettavo quest’uomo. Non un uomo. Questo uomo.
Uno che spalancasse le porte del mio cuore arroccato, che mi dicesse una, una sola parola d’amore, che parlasse a me intera.
Non me lo sono sognato. C’era davvero.
Io vorrei credere che fossero tutte bugie, ma non ci riesco, perché la mia strada tortuosa fa sì che chi disse di amarmi e ancora mi guarda così me lo doveva ripetere anche oggi, che era tutto vero. In quel momento. Sai che me ne faccio, io, del fatto che fosse vero, in quel momento.
C’è stato un mese, di questi tredici, in cui abbiamo volato così in alto che non pensavo fosse possibile. Niente ebbrezza, niente stranezze. Niente pesci nel mare dell’Egitto, o kite sul cielo di Boston. Nessun cazzo di evento straordinario. Solo, magari, le dita intrecciate facendo due passi. Una pasta arrangiata all’ora di pranzo. La musica dopo cena, o senza cena. Un anniversario segreto festeggiato dentro la pelle l’uno dell’altra. ‘Buon anniversario, amore mio’. E una lacrima, ma di gioia.
Dite tutti che sono esigentissima, ma io davvero non ho chiesto niente alla vita. Mi bastava questo poco, che per me è il raggio di sole che da il senso ad ogni giornata, anche se fuori dovesse piovere a dirotto.
Me l’han portato via, il sole, ma è stato uno stillicidio lento e crudele.
C’è stato da ascoltare un uomo che, nel pieno della sera, si mette a raccontare del suo matrimonio infelice mentre io sono lì. C’è stato da ascoltarlo e capirlo, in silenzio. Prendendo pugni nello stomaco ogni dieci secondi, e ricordando, impietosamente, ogni singolo minuto della mia, di separazione.
C’è stato da consigliarlo quando non sapeva che fare, e da dirgli di non ferire oltremodo la donna che ha sposato, smesso di amare e tradito. Con me.
C’è stato da sopportare di saperlo una settimana in vacanza, da accompagnarlo al telefono nel viaggio, da tacere l’urlo violento e strabiliante della paura che qualcosa, per caso, si riaggiusti, nell’interesse suo e del profondo amore che provavo.
C’è stato da guardare in faccia tutti quelli che conosciamo tutti e due e non poter dire perché tremo di paura e piango senza apparente motivo sui gradini grigi di un ufficio dove in tanti mi vogliono bene ma non sanno niente di me.
C’è stato di ricevere una telefonata, quattro lunedì dopo, in cui sentire la sua voce che trema e che mi dice che la bomba è scoppiata.
E io zitta, qui. Spaventata dal telefono che suona, sola come un cane abbandonato sotto la pioggia, ad aspettare il colore della scure che si sarebbe abbattuta su di me.
Consolalo, confortalo, sostienilo, lo ami.
Taci, quando vuole silenzio.
Parla, quando vuole il raggio di sole.
Sopporta che ti racconti tutto, perché sei l’unica con cui sente di poter dividere.
Ascolta il telefono che tace.
Trema perché hai paura e non dire una parola.
Tollera e comprendi i cattivi umori, le lune storte, le parole infelici, le telefonate bruscamente interrotte.
Perché?
Perché arriva un “ti amo” scritto via sms a mezza giornata.
E tu ci credi. O meglio, io ci ho creduto.
Godi, piena di indomita speranza, di questo poco che c’è. Cammina in silenzio, cinquanta metri avanti, mentre lui chiama a casa e finge che niente di questo sia vero.
Fatti anche presentare il suo amico, sorridigli, mostragli chi sei e che non sei l’arpia pericolosa che vuole strappare la vita ad un fratello, ma solo regalargli un meraviglioso futuro non convenzionale, pieno di incertezze e cose difficili, che però risuonano di sole e campane tibetane e pienezza infinita.
Ascoltalo, mentre ti dice che ha parlato di te, di voi, ai suoi genitori, separati.
Ascoltalo, mentre ti dice che va a sciare un giorno intero con lei.
“Avrei preferito non saperlo”.
“Ci siamo detti che ci diciamo tutto”.
“Va bene”.
“Stai tranquilla, non ti preoccupare. Amo te. Amo solo te, una strada la troveremo. Se ci guardi, si vede che sembriamo due vecchi amici”.
Sto tranquilla. Se solo ne fossi capace.
Non ero capace, una volta. Non mi sono mai fidata di nessuno, mai, in questa lunga e breve vita che ho attraversato. Stavolta però il gioco pareva valere la candela.
Fidati. Metti la tua vita nelle mani di un altro.
Mi sono fidata. Ho rivissuto l’incubo di quello che è successo a me, e non è tanto tempo fa. Ma ce la potevo fare, io sono forte.
Con gli amici che me ne dicevano di ogni, e io che cercavo di spiegare, invano, cosa capivo di questa cosa. Anzi, come diceva Andrea, non la chiamare ‘cosa’ questo che c’è tra noi. Non è una cosa, è molto molto di più.
E visti i risultati, mi sembra giusto continuare a chiamarla cosa.
Perché io la capisco, questa cosa. Ma non sono io che la devo capire. Io ci sono già passata, dalla mia, di cosa.
Poi viene il panico. Sua madre che dice: che cazzo stai facendo. Gli amici che non se la sentono di dirgli nessuna verità.
Lui va nel panico, io subisco l’intera onda d’urto. Del resto, a chi buttare addosso il dolore, se non a chi ti ama?
“Forse me ne devo andare di casa. Però ho paura che lei si incattivisca.”
“Ha provato a baciarmi ed io l’ho respinta, perché riesco ad amare una donna sola per volta, e amo te.”
Anche questo, non me lo sono sognato. No. Ero lì, cazzo, ero lì.
Sul mio tavolo, con una bottiglia di Sergio, gli occhi pieni di lacrime e il telefono che suona di continuo.
Ma le parole non sono importanti, evidentemente. Lo sono solo per me (e per Nanni Moretti).
Queste parole me le sono immaginate, evidentemente.
Se no non me lo spiego perché, di tutto quello da cui si può provare a staccarsi, proprio da me.
Ma siccome io sono forte, e siccome a me si può provare a chiedere la luna, è da me che ci si stacca, piano piano, senza dirmelo.
“Ho bisogno di capire se i suoi sentimenti sono sinceri”.
Certo. Sinceri, i sentimenti di una donna che son tre anni che non ti degna di uno sguardo nemmeno quando aggiusti un tubo, si riattivano miracolosamente nel momento in cui tutte le certezze sono in bilico.
E a chi la dici, una cosa così?
A me.
Io sento male. Sento male forte, perché questo non c’entra niente con me.
Sono cazzotti, schiaffi, calci nello stomaco.
Come nel pestaggio del barbone di Arancia Meccanica.
Sono botte senza motivo, senza significato, senza spiegazione.
Anche se lei lo amasse follemente, ma lui non più, se fosse vero che ama me… perché dirmelo? Perché far soffrire proprio me? Ancora?
Perché io sono una a cui si può chiedere la luna.
Magari sono così speciale che davvero ci arrivo e la porto sulla terra.
Io non ce la faccio, e dico che se sta così male, decido io, per tutti e due.
Ma lui mi chiede tempo.
“Dammi tempo, ho solo bisogno di tempo”.
Il tempo, proprio il tempo, che per me è la risorsa più scarsa e preziosa.
Non avevo capito che voleva dire: ‘Lasciami scappare come un coniglietto nella radura. Lasciati uccidere ma decidi tu quando’.
In fondo, cosa mi costa?
400 km a/r in sei ore, per credere a tutti quelli che mi dicono che è proprio adesso che non lo devo mettere in un angolo.
400 km a/r in sei ore, la neve sul Turchino. Non ho le gomme da neve. Soffro di vertigini ma bisogna arrampicarci su una stupida collina sopra Genova. Tremo per venti minuti dalla paura, e poi la sera non esco, perché se esco con qualcun altro lui è geloso. Anche se nelle mie intenzioni non c’è niente, proprio niente di malizioso, tranne il profondo desiderio di non stare sempre, sterilmente, sola ad ascoltare il silenzio.
Da allora ci sono stati solo malumori.
Lui che si dibatte, lui che soffre, lui che scopre adesso che i suoi bambini sono disperati. Adesso?
Lui che chiede ancora silenzio.
E io ancora lo do. Io che faccio tanta fatica a tacere, ad aspettare che il tempo passi, a non scrivere. Lo faccio.
Ma arriva lo stesso il messaggio delle due del pomeriggio. Perché in Liguria ci si sente soli senza la signorina raggio di sole, quando piove. Non importa se lei ha gli attacchi di panico. Se non cammina, se non respira. Se non sa neanche più dove guardare. La signorina raggio di sole può sopportare tutto. Salvo poi sentirsi dire che sembra un cadavere. E anche se chiudo, i messaggi continuano ad arrivare.
Parliamo.
Di cosa?
Perché mi devi straziare ancora di più? Cosa ho fatto di così terribile per meritare a questo?
Non lo voglio fare, perchè in fondo a tutto, ci sono anche io.
In fondo a questa bottiglia di Cabernet, in fondo alle mie paure, in fondo alla mia schiera infinita di difetti, dopo la collera insostenibile, dopo la paura ingestibile, ci sono anche io.
Anche io, solo un po’, ho diritto ad una briciola di amore. Ad un attimo, un solo attimo, di attenzione. Nemmeno quella, no.
Lo stesso uomo che mi guarda come se fossi l’inizio e la fine della vita ogni volta che mi abbraccia, da un anno e più ormai, non ha avuto nemmeno il coraggio di dirmi che sta di nuovo provando a salvare il suo schifoso dannato maledetto matrimonio infelice. Nemmeno una telefonata.
Poche volte ho attraversato una collera così violenta. Ho desiderato di scrivere le parole più feroci che so, e ne ho scritte meno di un centesimo.
Adesso, da settimane, mi sento come un sacco di soia a cui tirare pugni per sfogarsi.
Il bacile in cui versare le lacrime e sfogare i desideri più bassi e ancestrali.
Perché questo era, la via di fuga: sfogare sulla mia pelle e nelle mie orecchie la frustrazione. Null’altro.
E nemmeno dopo che chiudo tutte le porte, tutti i battenti, che annullo ogni spazio di comunicazione, ho diritto di essere lasciata in pace.
Ho bisogno di parlarti. Di cosa? Ancora?
Di nuovo?
Perché?
Due ore al telefono, tanto lui è in trasferta, e lei non se ne può accorgere che sta ancora parlando con me. Non ti voglio parlare. Non c’è più niente da dire. C’è solo da affrontare il buco fondo in cui sono finita, il più nero che potessi concepire, che nemmeno nei miei terribili incubi ho mai immaginato.
E invece no.
Pare che ci sia ancora qualcosa da dire. Ed io non so che piegarmi. Piegarmi a sentirmi dire che sembro un cadavere, che devo guardarlo negli occhi mentre mi prende a pugni nello stomaco.
Di nuovo, stare a sentire uno che mi dice che era tutto vero. Era tutto vero ma lui ci deve provare. Perchè forse non se lo merita un amore così grande. Perchè forse non sa cosa significhi il verbo amare. Perchè forse anche lei questo si merita.
Peccato che è il mio, di amore grande, di cui si è nutrito togliendomi ogni spazio di respiro.
Di nuovo, devo sentirmi dire che di tutti quelli che possono provare dolore in questo momento quella che conta di meno sono io.
Solo che io in questa cosa ci ho messo tutta la mia vita, e adesso non so tanto bene come fare a riprendermela.
È qui che vi chiedo, amici miei conosciuti e sconosciuti, datemi una mano. Aiutatemi a riprendermi quella mia splendida me stessa, così piena di luce come sono sempre stata.
Aiutatemi a recuperare quella elegante e travolgente bellezza (sprecata) e ridarle un senso.
Ho appena letto.. Stupendo e straziante ! Raccogli i pezzi del tuo cuore in frantumi e gettali nella pattumiera, il tempo e solo lui, e non ti so dire quanto se giorni o anni, farà il resto. Stai certa però che tornerai ad essere quella persona forte sicura e calcolatrice che sei sempre stata . Anzi forse anche meglio di prima, con la consapevolezza di aver amato sinceramente e senza compromessi. E prima o poi tornerà quella congiunzione astrale che ti farà trovare un altro Andrea, ma questa volta sarà di sicuro una storia a lieto fine!!
Purtroppo è vero: solo il tempo potrà curare queste tremende cicatrici. L’unica cosa che ora puoi fare è raccogliere tutte le tue forze, resistere il più possibile a questo dolore lancinante, e aspettare che, giorno dopo giorno, passi. Ce la farai a superare tutto questo, ne sono certa! Ti abbraccio forte forte!
scegliere di vivere una vita senza coraggio è un peccato mortale prima di tutto verso se stessi.
scegliere di sciacquarsi la coscienza delle proprie scelte non coraggiose è malvagità.
Il coraggio è una virtù sottovalutata anche da chi, come te, il coraggio lo sperimenta ogni giorno.
Piccola, grande Chiara, tu sai già che io ci sono, ma non mi dispiace ripeterlo. Ogni esperienza è unica, ogni tragedia del cuore lascia un segno, e anche se è difficile da credere, inforndo sai anche tu che questo ti renderà più forte, più bella (si puo??) e radiante della tua luce. Sii forte e goditi ciò che hai ritrovato (ultimamente). Un abbraccio forte forte. F
Chiara, ci sono passato anche io da una storia simile dedicandoci (bruciandoci) 4 anni della mia vita, all’epoca ero quasi quarantenne e sapessi quanto tempo e quante opportunità mi sono lasciato scappare. C’ho messo anni per farmela passare, non è stato semplice, mi ha aiutato il frequentare amici e conoscenti, stare con la gente, insomma vivere la vita.
Un abbraccio, Edo.