***Κύριε ἐλέησον***
Aeroplani su due piani.
Come se dentro di me ci fossero due cieli per gli stessi occhi. Perché io sono la stessa donna, ma sono cresciuta. Sono cresciuta e sento, solo adesso, che quel cielo lì, in quel momento lì, non l’ho guardato. E mi tocca di guardarlo oggi.
Ho due cieli sopra la testa del cucciolo di gatta randagia e bagnata che mi vive dentro, e sono dello stesso colore. Celesti. Attraversati, tagliati e disegnati da scie bianche di aeroplani.
Tracce di vita, schegge di emozioni, strade da percorrere, decisioni da prendere. Ciascuna nel suo cielo, inevitabilmente separate perché non giacciono sullo stesso piano. Non si possono toccare. È una impossibilità topologica, oltre che logica.
Eppure, stamattina, due rette sghembe su piani paralleli si sono incrociate. Ed io navigo nel delirio a più dimensioni, dalla flatlandia di allora alla pienezza corposa del 3D di oggi.
Rileggevo tutto il Guscio cercando le parole che ho scritto. Non le ho trovate. Ho trovato un sacco di parole non scritte. Allora ho riletto tutta la gmail. Novecentocinquantasette messaggi nella posta inviata. Anche lì non le ho trovate.
Non le ho trovate: non ci sono. Nel mio passato ci sono paradossalmente solo parole non scritte.
Ero così paralizzata dalla paura e dal dolore di essere me stessa che nemmeno scrivevo.
Ho lasciato un pezzo di me dentro la storia cercando di non lasciarne traccia.
Peccato che, evidentemente, non si può.
Non si può passare attraverso il cerchio di fuoco e fingere di non essersi ustionati.
Mi sono ustionata. Ferocemente. E un aeroplano ha diviso il mio cielo in due.
Ricordo quelle ore, quei giorni, quelle settimane, come se fosse due minuti fa. Ma li avevo dimenticati. Messi via.
Chiusi dentro ad un cassetto, come diresti tu, vecchio caro guerriero maori. Tu, che con la tua angoscia profonda di questo cielo e di questa scia di aeroplano, mi ricordi la mia angoscia profonda di quel cielo e di quell’aeroplano.
Continuo a non sapere perché mi son sposata, e a questo punto non credo sia particolarmente utile capirlo. Non ci ritrovo niente di me in quella Chiara lì. E non è revisionismo storico, solo, forse, incoscienza.
Dicevo, scrivevo, che ero felice.
Dicevo che era un sintomo.
Dicevo che era la mia gatta interiore.
Scrivevo che non capivo, che eravamo in due dentro di me, come cantava la Nannini.
Scrivevo che non volevo scegliere. Non tra di loro, ma dentro di me. Io non ho mai dovuto scegliere tra loro due. Non avevo una scelta da fare, non avevo due soli. Ero sola, con due orizzonti senza astri. C’era una pallida luna sbiadita di qua, che mi faceva sentire sicura e protetta. Illusa, mascherata, ingabbiata, ma sicura. E di là uno sterminato cielo pieno di nebbia e di vento e di pioggia.
Ma per una come me ci vuole “pioggia, vento e sangue nelle vene”.
Scrivevo che non volevo scegliere e lo scrivevo proprio al mio legittimo compagno di strada.
Sono stata un mostro. Un essere umano orribile, travestita di onestà, nascosta dentro l’infamia della paura.
Ho detto tutta la verità solo per spostare l’asse del peso della responsabilità. E gli ho anche chiesto di tacere.
Non sono riuscita a fare diversamente.
Ho chiesto a lui di scegliere per me.
È per questo che oggi capisco quando mi dici: ho bisogno di capire se quei sentimenti sono sinceri. Perché ti vedo che ti dibatti disperato dentro la gabbia stretta che tu stesso hai costruito e che non hai voglia di aprire, avendone la chiave, e mi ricordo quando l’ho fatto io.
A trentadue anni, dopo sette infiniti anni di vita assieme, ho guardato mio marito in faccia, gli ho detto che non avevo il coraggio di lasciarlo ma che mi ero innamorata di un altro. Gli ho detto che lui era la mia stella polare, il punto cardinale attorno al quale orientarmi, gli ho detto che lui mi faceva sentire tranquilla, sicura, adagiata, in quiete e che per questo non volevo rinunciare. Gli ho detto che non volevo più che mi toccasse, che dormisse con me, ma che doveva leggere quello che scrivevo e capire quello che sentivo.
Ho chiesto a lui di scegliere per me. E lui, che è più acuto di una faina, non l’ha fatto.
Io dico che è un invertebrato, e probabilmente ho anche ragione, ma le sue parole, dure come la roccia e fredde come il ghiaccio, erano le uniche vere da dire. Eccolo qua, il mio intelligentissimo ex marito di ghiaccio.
Eto Demerzel, il robot di Asimov.
Matteo citava Asimov, io sapevo già cosa voleva dire. Peccato che mai l’avrebbe letto, Asimov, senza di me. Noi due eravamo quei due: quei due lì, che si capivano a colpi di citazioni sofisticate senza neanche dover pensare. Fa niente se non c’era niente altro. C’era quello. E l’album di Ludovico Einaudi che ci ha regalato Aurora e che mi son portata via senza colpo ferire.
C’era solo quello perché Matteo era freddo come l’alba.
Glaciale.
Distaccato.
Senza sangue.
E io ero lì che sbattevo la testa e dicevo: non è vero, non è vero, non è vero.
Mi scriveva righe il giorno dopo il mio trentaduesimo compleanno, in cui non ero nemmeno tornata a casa a cena per festeggiare ed ero uscita con l’altro. mastrolindo, con la minuscola, per la precisione.
Un mese dopo decorreva il contratto di affitto della mia mansardina arancione.
Nel mezzo, non ci siamo parlati.
Quando abbiamo capito che non c’era più niente da fare, noi due che parlavamo tanto, non ci siamo detti più niente. Nemmeno, forse, un educato ed algido buongiorno.
Strisciavo, in quei giorni. Sul fondo della gabbia, in mezzo alla sabbia e al fango e allo schifo. Strisciavo, sudavo, piangevo.
Nessuno capiva, nemmeno forse io, che i miei trenta denari son quelli con cui ho pagato la salvezza.
Nessuno può ascoltare il suono secco delle speranze e dei progetti infranti. Perché saran pure sbagliati, ma son sempre progetti.
E anche quando li riguardi dopo una vita, hanno sempre lo stesso retrogusto amaro di quello che si sarebbe potuto far meglio.
Cosa avrei potuto far meglio?
Avere la forza di essere più consapevole, più onesta, più forte.
Di non chiedere la luna a chi non poteva darmela. Di non chiedere la luna a Matteo, da cui nemmeno l’avrei voluta.
Ma ormai è andata così, e forse dovevo arrivare ad oggi, a rileggere quel dolore, per capire che era tanto meglio così.
Poi mi chiedi se capisco. Cristo, se capisco.
Capisco, risento, rivivo, e ipotizzo.
Cerco di essere obiettiva, di non proiettare la mia esperienza su di te, non so se ci riesco.
Magari mi sbaglio, magari non ho capito niente, e davvero non non eri l’altra metà del cielo.
L’aeroplano che lascia la sua scia nel cielo stamani, però, mi racconta sempre lo stesso sogno. Quella vita piena di cose piccole e faticose che desidero.
Ci hanno scritto infiniti libri, sui grandi amori. Ed io me ne sono sempre tenuta lontana. Lontana perché ho paura di essere amata, e di non esserlo, o di non esserlo più.
Lontana, staccata, nascosta. Perché si sta molto più al sicuro così.
Dentro alla serie infinita di affetti piccoli che impediscono di affrontare una cosa tanto più grande, che è l’amore come lo dice Rilke.
Ho scelto solo persone che non mi avrebbero mai amata, così potevo passare indenne la vita dando la responsabilità ad altri, e non a me, del mio mancato amore.
Ho massacrato un altro essere umano, a cui volevo un bene infinito ma assolutamente freddo, per arrivare ad essere me.
Questa me che sotto questo cielo, stamane, forse tu hai amato. E dico forse, sì, dico forse. Di quell’amore altro e più grande che né io e né tu abbiamo mai immaginato.
Dico forse perché tu sbatti la testa contro le sbarre. Soffri. E scoppi, dilaniato. Non ci capisci niente, non ci vedi fuori e ti fa male la testa e vorresti solo un po’ di pace e di silenzio e non hai nemmeno una dottoressa stranamore dall’altra parte che ti alleggerisca e ti sollevi.
Ti sei trovato questa faticosa e impegnativa gatta randagia, senza filtri e senza mezze misure, che non ti chiede niente e non ti dice niente ma si era proposta di prometterti un amore enorme che lei stessa non sa se è in grado di dare.
Io credo che, al posto tuo, sarei scappata molto prima di te. Non come un coniglio, come hai fatto, tu, no. Perchè io sono onesta e coraggiosa. Ma non importa.
Io, al posto tuo, mi sono scelta una strada infinitamente più semplice, pur se molto scivolosa.
Un sacco di male che si poteva non guardare e metterlo via. Fino ad oggi.
L’unica cosa che ricordo, con nitore strabiliante, è che avrei voluto che Matteo mi dicesse: hai ragione. La doveva piantare di dirmi: io ti amo, io ti perdono, io ti accolgo. La doveva piantare di fare il Gesù della situazione. Mi teneva ancora più legata. Ma lui si sentiva così. Che lui era giusto e io sbagliata. Che ammettere che avevamo fatto una stronzata galattica era come mettere in crisi le ipotesi di un teorema. Che la mia angolazione Popperiana alla teoria della conoscenza era solo una scusa per chi non crede.
Anche se ne avevo infinite, di evidenze falsificanti, che di dicevano che dovevamo lasciarci andare, e anche alla svelta, prima di fare altri danni.
Io lo so, che avevo ragione, ma lo vedo nitidamente soltanto adesso.
Mi raccontano, gli amici in comune, che dopo che me ne sono andata di casa Matteo ha ricominciato a respirare. Che ci è voluto un attimo.
Io lo so, che non ci amavamo più, tutti e due. E non ho alcun bisogno di giustificarmi, perché me ne sono andata pensando che fosse solo colpa mia.
So adesso che era tutto morto, quell’amore piccolo, pulito e noioso di cui ci eravamo amati.
O almeno l’amore di cui avrei voluto che ci amassimo e di cui ancora voglio essere amata.
Io credo, forse, perché quel noi che ci eravamo favolosamente immaginati non ci è mai stato.
Ci siam sbagliati proprio.
Ma io mi perdono.
Mi perdono, oggi, dei miei errori e delle mie paure.
Mi perdono anche per non aver capito chi ero e come volevo diventare.
Mi perdono perché per essere qui, oggi, così, dovevo passare per quel fango.
E allora ti perdono, finto guerriero incapace anche di dirmi che hai cambiato idea, di tutte le esitazioni che hai avuto e che hanno stravolto le mie giornate e le mie notti. Ti perdono della paura, della morte che senti dentro, del delirio, della schizofrenia.
Qualunque cosa sia stata, qualunque cosa sia accaduta, qualunque senso abbia avuto.
E rimango qui, ferma dove sono, a guardare la scia dell’aeroplano nel cielo.
Mi viene in mente una frase di Lilin (educazione sberina):
Non puoi possedere più di quanto il tuo cuore possa amare.
Chiara, lascia libero il tuo cuore, lascialo amare immensamente e, finalmente, avrai anche la luna. E non perchè qualcuno te l’abbia regalata.
E se dovesse andar male saprai che non è stata tua la colpa. Eventualmente solo un’altra cicatrice. Ma intanto avrai vissuto pienamente.
Non aver paura di amare. Mai più.