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pillole rosse

‘Mi fido di te’ di Lorenzo l’abbiamo scambiata in tanti per la solita canzone d’amore che, come direbbe la mia socia Ann, fa credere a Cenerentola.

Per carità, non dico che l’abbiate fatto voi che mi leggete.

Io sì, però.

Ma Chi, io?!

Sì, io. Che, tra le altre cose, non ho mai creduto a Babbo Natale e a trentacinque anni credo a Cenerentola.

Perchè talora anche una che si chiama Chiara e nasce profonda come la Fossa delle Marianne riesce a rimanere sulla superficie dell’acqua. Perchè sovviene che una canzone la senti solo con le orecchie. Non la *senti*.  Perchè sovviene che *sentire* con le orecchie significhi ascoltare, concentrare l’energia, mettere a disposizione la propria disposizione d’animo.

*Sentire*, sì, come sinonimo di fidarsi, come sinonimo di rischiare.

Beh, ecco. Lo sapete. Ho comprato quest’album, e siccome è attraverso la musica e la pelle che io *sento*, è una settimana che non sento altro (adorati Negroamaro esclusi). Solo che, tra le altre cose, sovviene, capita, succede, che io la musica la ascolti. E molto.

E così capita che eventi singoli, che diremmo scollegati, si fondano insieme, nella mia percezione, nel dispiegarsi della strada che ho davanti, e poco mi importa se vi sembro matta, io ci credo: nulla succede per caso.

Stasera cercavo le parole per scrivere questa storia, ed una è la proposta del mio impianto audio autoapprendente: “la dea dell’amore si muove nei jeans, forse fa male eppure mi va, di stare collegata e vivere d’un fiato, di stendermi sopra un burrone e di guardare giù, la vertigine non è paura di cadere ma voglia di volare, cosa sei disposta a perdere… dottore che sintomi ha la felicità?”

Questa non è una esercitazione. Non scrivo per provare se sono brava con le parole. Scrivo perchè sento, e sento più forte quando scrivo.

Sento che la vita ti mette davanti le occasioni quando serve, come la bottiglia di Nero d’Avola sul mio tavolo, e che le occasioni sono eventualità che non vanno lasciate stocasticamente avvenire. Vanno colte.

E se, tutta contratta, dopo due mesi che hai un mal di schiena boia, dopo una vita che i maestri di ballo di chiedono perchè una leggera come un canarino pesi come un bisonte ed abbia le spalle di granito, dopo che un dottore magico ti dà un rimedio di cui non ti dice il nome nè il motivo ma fai un sacco di incubi (e molti, ma molti più del solito), incontri un’anima pacifica e consonante che ti dice: secondo me la pancafit ti aiuta, tu che fai?

Cosa sei disposta a perdere?

Mi fido di te, Aldo. Autore di questo libro che dialoga apertamente con la mia coscienza a colazione. Mi fido abbastanza da stare stesa nella penombra di un sabato pomeriggio, nella mia incasinatissima Groud Zero, su una strana panca blu, che si scopre che, siccome nulla succede per caso, l’ha certificata mio padre, come dispositivo medico.

Sapevo già che qualcosa di strano sarebbe capitato. Io so sempre tutto e lo so sempre prima che succeda. Non è *strano*.

E ho scientificamente deciso di lasciarlo succedere.

Fa male, cazzo se fa male, eppure mi andava di guardare giù. Io che soffro davvero di vertigini.

Stesa su quella panca mi ha fatto male *quasi* tutto, nel senso puramente matematico del *quasi ovunque*. Le mie gambe che sono lunghe un chilometro. Le mie spalle che si raggrinziscono abitualmente su se stesse fino a rattrappirsi dentro al collo. La mia nuca che *quasi* neanche si gira. Il mio plesso solare che ulula se ti avvicini, e che mi fa piangere e smettere di respirare, se ti avvicini troppo. Solo che piangere senza respirare è *quasi* impossibile. E solo che io difficilmente piango in pubblico, anche se piango spesso.

Per quanto ti avvisino che avvicinarti a te stesso è prendere una pillola rossa, non lo sai, finchè non lo fai. Anche se ne hai già presa qualcuna, di pillola rossa. O almeno credevi.

La pillola rossa, che sia la panca, che siano i fiori, che sia un incontro, che sia il rimedio senza nome, ti mette lì vicino a te e ti dice: ci guardi, adesso? In quello che sei, in quello che vuoi? Ci guardi, bambina, al posto in cui vuoi vivere, alle persone che vuoi amare, a cosa sei disposta a perdere?

Sono tre giorni che vivo nello svarione costante delle pillole rosse della mia vita. Ci potrei condensare la mia vita, in tre giorni.

Mi sembra di pesare ottanta chili. Le mie ossa non sono fatte per sopportare tutto questo peso. Posso lasciare che mi si appoggi addosso e abbracciarlo con amore, ma non posso deambulare. Sento un carico enorme sulle spalle e sulla schiena; ho sempre voglia di camminare (o di andare via?); ho bisogno di tenere le gambe stese e poi nella posizione del loto, ma non accavallate. Appena chiudo gli occhi faccio un incubo.

La scorsa notte ho sognato gattini trucidati da una lama sottile. Mi sono svegliata. Ho sudato, smesso di respirare, ascoltato il cuore che sbatteva sui muri. Mi sono riaddormentata. Ed ho sognato ancora. Ho sognato che dovevo per forza sposare Michele, che mi tradiva e mi lasciava all’altare (o forse davanti al messo comunale) e mio fratello che diceva che aveva ragione lui. Mi sono svegliata, di nuovo. E avevo freddo e sudavo. Insieme. E guardavo il soffitto e sentivo il battito potente e angosciato del mio sangue nelle vene, poi piangevo. Così, quasi a caso.

Già, quasi. Nulla succede per caso. Neanche i miei incubi.

Sento forte il primo Chakra che tira verso la terra, le gambe pesanti. Sento la testa che ha bisogno di pensare, articolare, decodificare i bisogni, prima dei sintomi. Sento le voci di chi mi telefona, distinguo l’amico dal nemico.

Capisco, intendo, leggo, *sento* che qualcosa *succede* dentro di me. Capita, avviene. E non so esattamente cosa sia, ma so che fa bene.

Quattro gocce di Rescue Remedy, sorseggiate con una tranquillité à la Chocolat che non mi appartiene. La voglia di raccontare al guerriero maori a cosa servono questi meravigliosi semplicissimi cinque fiori di campo.

Il battito che accelera e rallenta. La schiena che duole e poi smette. Un trilione di microfratture nei miei muscoli che sono lunghissimi ma non sono abituati a conservare la loro guisa naturale. La voce che trema, senza motivo al telefono. Il rimorso per non aver detto all’invertebrato che lo odio per non aver nemmeno provato a combattere. La voglia di mettere un piede nudo in mezzo alla neve alta. La fortuna di avere una amica che dorme a tre metri in verticale da dove sono e che è quanto di più diverso da me io conosca. Un bicchiere di rosso che profuma della spuma del mare d’inverno. Il desiderio di sentire la voce che amo di più al mondo e il gioco di parole tra ‘mi chiami’ e ‘mi ami’.

La speranza di non fare un incubo, almeno stanotte, nel fondermi ogni attimo con il cielo e con il fango, anche se a me piacciono i profumi buoni e le faccende pulite.

L’odore della sigaretta bruciata, i capelli bianchi che spuntano liberi anche se non li vedete, il collo che fatica a girarsi, gli occhi che non si chiudono perché sono una stregatta, Chopin che mi guarda interrogativo e saggio, la luna sul tetto di Ground Zero, l’aria freddissima che entra dalla finestra.

Questa mia strana, stranissima me, che tanto trovo bella e per niente difficile, anche se mi dite che sono troppo cerebrale.

Ha ragione Lorenzo: ci vuole pioggia, vento e sangue nelle vene. E io ce li ho tutti dentro, nella mia vena inquieta, creativa e notturna.

E voi?

 

3 commenti su “pillole rosse”

  1. Quello dal nome banale

    E noi stiamo alla finestra, guardiamo ma non capiamo, poi osserviamo, ma non capiamo. Cerchiamo luce, ma è solo notte. Allora ci accomodiamo nel buio e ce lo facciamo andar bene. Siam coloro che odi, perché non combattiamo.

  2. Consolante è leggere le tue righe, sì piene ed esaustive di te ! Deprimente altresì il non poter, se non con la forza impalpabile della mente, riuscire a farti star meglio di quanto rosse pillole e panche blu stan facendo…
    Ciao, amica di penna chiara

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