*** da leggere ascoltando Lady Labyrinth ***
Mi chiamo Chiara, e questo sono sicura di esserlo: chiara.
Chiara perchè sono sincera, perchè sono onesta, e perchè sono anche un po’ trasparente (quindi indifesa).
Chiara perchè ho la pelle bianca come la luna e liscia come la seta, la mia più grande fortuna.
Se mi guardo bene, però, sulla superficie invitante che ho cucita addosso sono rimasti tanti segni: me li ha lasciati la vita.
Dentro lo specchio vedo le occhiaie buie di una che dorme poco e male, perchè è inquieta.
Dentro lo specchio vedo piccolissime rughe sottili, sotto gli occhi un po’ a mandorla: mi son venute per quanto ci ho pianto, con questi occhietti, di rabbia, di disperazione e più spesso di paura. Ho una ruga per ogni domanda a cui non so dare risposta, e temo che nessuno me le conterà mai, le rughe.
Vedo un sacco di nei, sul viso e sul corpo. Alcuni sono bellissimi, altri li odio furiosamente. Traccia ciascuno di una meravigliosa imperfezione, di un errore che ho commesso, di una cattiveria gratuita che non avrei voluto dire.
Ho i capelli corti, come le bambine piccole e le grandi donne. Li tengo così perchè mi piacciono le cose essenziali. Perchè mi piace pensare di esserlo, essenziale, in tutte e due le accezioni in cui si può leggere l’aggettivo.
Dentro lo specchio ho labbra carnose, tante e morbide, disegnate per piegarsi a guisa della perplessità e baciare. Baciare tanto. La cosa che amavo di più, del dottor stranamore, era che si faceva baciare tanto. Poi un giorno ha cominciato a baciarmi meno, e non ho scritto il trentaquattresimo e mi è venuta un’altra ruga. E una decina di capelli bianchi.
Ho la testa grande e non solo per intelligenza. Cubo cinquantasette centimetri di circonferenza del cranio. Metteteci qualunque cosa su una testa e una faccia così: occhiali, cappelli, orecchini. Mi donano. Solo il trucco pesante non mi dona, perchè sono semplice nei gusti e complessa nei pensieri.
Ho la testa grande retta da ossa sottili e spalle larghe, gambe lunghe, piedi ossuti e fianchi morbidi (anche troppo). Le spalle mi servono a portare i pesi, e ne ho. I fianchi ad assorbire gli urti, e ne prendo. Botte, urti, pesi, testacoda. Neanche fossi un pilone.
Ho mani magre e dita lunghe: mi servono per tenere la penna. Perchè qualunque cosa sia di me, domani, io sono una scrittrice. Lo faccio da quando ero piccola così: tutto quello che sento, io lo scrivo. Per fortuna, talora, qualcuno che amo mi legge.
Scrivo molto perchè spero molto. Chiara, no? Pulita, ingenua e piena di una strana incrollabile speranza che non riesco, in alcun modo, a debellare. Io spero, spero sempre.
Non spero e basta. Io combatto. Per questo non dormo: ci vogliono occhi vigili, per combattere. Occhi vigili, spalle forti, organismo reattivo, energia. Ne ho da vendere.
La prendo dalla musica, l’energia. Mi sveglio la mattina, accendo lo stereo, e tutta Melrose sa di che umore sono. Penso, e accendo la musica. Scrivo, e accendo la musica.
Volo, insieme alla musica. Ci ballo, soprattutto. E questa è una delle cose che mi manca di più, della mia vecchia me: la danza. Non importa che sia Liga sul tappeto di Ground Zero, uno di quei remoti tanghi in milonga col mio maestro, una bachata con un ballerino troppo timido. Ballerei sempre, non ballo (quasi) mai.
Non ballo mai perchè non ho con chi ballare. Ballavo, una volta, con la stella polare, ma io volevo un ballerino e un amore e invece sulla pista andavo con un perfezionista che non mi sapeva tenere e un’anima preziosa e senza sangue. Non si può ballare, senza sangue. Non si può amare, senza sangue.
Ah, il sangue! Ne ho così tanto. Così tanto da incollerirmi fino a perdere il controllo e spezzare in due gli occhiali tra le dita, così tanto da far imbestialire senza pietà qualunque interlocutore.
Ne ho così tanto che lo diluisco con il vino rosso, che mi piace tanto e altrettanto mi danneggia. Tanto sangue che ci vuole molto più che una bottiglia per farmi partire. Ma poi, quando sono partita e non mi tengo più, chi mi tiene? Chi mi trattiene, chi mi contiene, chi mi addomestica?
Nessuno.
E questo è il capoverso più triste: nessuno mi contiene, nessuno mi protegge, nessuno veglia sulla mia insonnia. Non la stella polare, non il dottor stranamore. Forse avrebbe potuto il guerriero maori, ma questa è una delle famose cose impossibili da risolvere che mi dicono piacermi tanto. Io, appassionata di rompicapo.
Porto gli occhiali, sopra il mio viso pallido, perchè non vedo un tubo senza. Neri e bianchi, i miei occhiali, sono l’unica difesa che indosso. E solo chi mi ha visto senza lo sa. Senza occhiali sembro una bambina, con gli occhiali una gatta pericolosa. Con o senza, ho il viso da bambola. E ne vado immensamente fiera, fino a che non mi ci trattano, da bambola.
Una bambola lunga e snodata, adattabile a tutte le scatole in cui hanno cercato di incastrarmi. Perchè sono flessibile e tollerante.
Una bambola morbida, prensile agli abbracci e facile alle coccole, che resiste molto bene alle botte, quando le prende.
Mi sono allargata e ristretta, sono ingrassata e dimagrita fino a diventare così, e guai a cambiare forma, adesso. Di questa lunga e faticosa evoluzione, mi sono rimaste, addosso, un sacco di smagliature. Per ogni volta che ho cercato di allontanarmi da me e per ogni volta che, da brava resiliente, ho ripreso la mia forma, ho una smagliatura su una curva.
Come il mio corpo, pieno di sbagli ricombinati in una strana bellezza tonda, anche io sono piena di eccessi: piango troppo, sento forte, rido sguaiatamente, esagero sempre. Non conosco la temperanza, non conosco la misura.
Conosco bene, quello sì, il rigore, ma lo pratico solo quando lavoro. E preferisco pensare che sia forza di volontà.
Amo camminare, specie quando penso, e stare seduta per terra, come adesso.
Amo leggere, studiare, capire le cose.
Mi piacciono la grammatica, la matematica, la musica. Forse davvero sono nata due millenni in ritardo.
Sono vivace e curiosa, come i miei occhi.
Sono maldestra come una gatta cucciola e sensuale come sua madre.
Sono elettrica e isterica, come l’aria quando c’è tanto vento.
Sono nostalgica e romantica, almeno quando nessuno mi guarda.
Ho trentacinque anni, un appartamento in affitto che ho chiamato Ground Zero, un lavoro difficile che saprei fare bene ma non sempre ne ho l’occasione; vivo con un gatto col nome di un musicista e un paio di migliaia di libri sparsi; ho pochi amici davvero speciali, neanche un euro sul conto corrente e un sogno nel cassetto. Ecco, questa sono io. Mi chiamo Chiara, siedo per terra, taccio e, qualche volta, piano, come Alice, sorrido.