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Del dolore e di altri demoni

Io ci provo, a stare in questa cosa. A starci sopra, a starci dentro.

Ci provo, e faccio l’unica cosa che so fare: racconto.

Ho imparato che non importa molto da dove viene, questo stato d’animo.

Lo so anche io che è peggio se muore un bambino, se c’è un terremoto, se si viene colpiti da un brutto male.

Ma il dolore non è relativo, ognuno sente il suo. E non fa meno male solo perché è socialmente meno grave.

Ho imparato, finalmente, che il dolore va ascoltato con attenzione perché avvicina pericolosamente a ciò che si è. E dico pericolosamente perché fa venire un sacco di voglia di scappare, di allontanarsi per non vedere, per non sapere.

Il dolore avvicina al fondo di sé molto più della gioia. E non sempre scoprire il proprio fondo é facile, e non sempre è bello. Almeno, non lo è per me. Amen.
Il mio dolore è una tenaglia stretta intorno all’anima, una vena sottile di acido che mi percorre il corpo, una maledetta lacrima rovente che non vuole uscire.

Sento un peso sordo in fondo al petto, un morso sanguinolento alle viscere, una bolla nella mente che mi obnubila e faccio più fatica del solito a parlare.

Se mi siedo e mi concentro, lo percepisco nitidamente: mi fa male la testa, stringo le mascelle e mi si spegne lo sguardo, fino a che non si inonda e illumina di lacrime, che darebbero sollievo, se ci fossero.

Adesso che sono qui, ferma, nella posizione del loto, riesco a guardarmi da fuori: vedo il mio cervello che schizza impazzito alla ricerca di soluzioni. Poi affoga nei ricordi, poi ricomincia a pianificare vie d’uscita. Peccato che da qui, col solo cervello, non si può uscire.

Si tratta piuttosto di aspettare che passi, con pazienza e forza, e di goderselo tutto, ma proprio tutto, il male che passa attraverso le arterie.

Non mi aiuta cercare di capire, non mi giova darmi spiegazioni razionali o, peggio, ragionevoli: sento un male boia lo stesso. Anche se non è morto nessuno, anche se sono due mesi e non due anni o venti, anche se lo sapevo già che finiva così.

Appena stacco le dita dalla tastiera e giro il viso e lo sguardo altrove, la mia testa ricomincia a vagare libera, si butta nei ricordi e poi li rifugge, cerca un’immagine positiva a cui aggrapparsi e poi la scarta perché non è adatta o non è sufficiente, poi annega nella musica e se sto ferma, ma proprio ferma, forse spinge una lacrima fuori dallo stomaco attraverso gli occhi.

Il dolore che sento è una Vergine di Norimberga in cui mi si è richiuso il cuore, piena di chiodi che mi trafiggono l’anima e mi impediscono di muovermi.

È un succo gastrico terribilmente acido che si rigurgita sotto la lingua rendendo tutto amaro e corrosivo.È aria rarefatta in un pomeriggio di sole passato all’aperto.

Quando sento tutto questo male divento incredula e traslucida, non guardo la realtà col solito nitore precognitivo, reinterpreto tutto come dannoso o impossibile. E cerco soluzioni, da brava scheggia impazzita amante dei rompicapi e degli ottimi globali.

Ho il cervello che gioca a scacchi con l’anima, e cerca invano di mandare un pedone a regina e dare scacco matto, ma non ce la fa.

Devo smettere di cercare soluzioni, non ce ne sono. È la vita, che è così, e ci pensa lei.

Continuo a chiedermi: perché?E poi mi viene in mente Gesù, che lo sapeva come andava a finire, che anche lui, proprio perché umano, ha pregato: Padre, fa’ che non passi da me questo calice.

Ecco, se non ce l’ha fatta lui, come potrei farcela io? Da sola?

Pesa, la mia piccola croce. Sembra pesare più di tutte le altre piccole croci che ho portato. Ma forse pesa così solo perché è adesso. O forse pesa così perché stavolta è peggio. Non lo so, ma a che serve saperlo? Tanto pesa lo stesso.

Anche se magari passerà così come è venuta. Che un martedì del cazzo ho sentito una voce al telefono e mandato un sms avventato, che non ho preso quell’aereo ma ho fatto molto peggio, perché ho aperto le mie, di ali. Ho liberamente scelto di volare, io che soffro di vertigini. E per due giorni in riva al mare e per due notti a Ground Zero, ho volato. In mezzo, tanta ansia. Foto, messaggi, parole, dubbi e ansia. E dopo, ammesso che sia almeno arrivato il dopo, il rinnovato schianto nella mia antica angoscia esistenziale.

Che me l’ero dimenticata, dopo dieci anni: sette di morte cerebrale e tre di folle ebbrezza etilica. Me l’ero dimenticata. Adesso è tornata, la mia cara vecchia amica Angst. La differenza è che adesso ho la forza. A venticinque anni, evidentemente, il coraggio di avvicinarmi a me, la forza di guardare dentro per capire chi sono, non ce l’avevo. Meglio farsi un’anestesia all’anima e scegliere di morire dentro.

Ma io sono una resiliente, qui ci dovevo tornare. E adesso ci devo stare.

Padre, quanto è maledettamente amaro questo calice.

Mi impasta la bocca, mi schiaccia forte al suolo, mi taglia la carne con lame velenose. Mi fa ascoltare per ore la stessa musica triste e ansiogena, spigolosa, nella sua infinita armonia. Mi fa tacere.

Padre, visto che da me proprio questo calice deve passare, fa’ che serva, fa’ che giovi. Fa’ che guidi il mio guerriero interiore sulla sua strada.

Il guerriero è caduto, stavolta. Combatteva, senza accorgersi che nel suo scudo si era aperta una crepa, che le mie difese si erano abbassate, o addirittura crollate, e ha preso una botta forte, troppo forte. Il guerriero è caduto e d’improvviso, tra l’inverno e l’inferno, si è trovato tumefatto al suolo.

Con spaventosa fatica si è girato sul fianco destro, ha appoggiato una mano per terra e, sollevando il suo peso senza strappi e con lentezza, si è alzato in piedi, urlando di rabbia.

Poi ha preso sua sorella, la gatta, per la collottola, e l’ha portata a ballare.

E anche lei si è stirata, furba e pericolosa, si è lisciata il pelo e con lo sguardo sornione e il passo leggero, ha ballato. Fino a notte fonda.

Allora, salva la gatta, il guerriero ha stappato il vaso, ha guardato dentro. Ha visto tanta, tanta acqua limpida, poi più nera. Poi del fango. E sta cercando di arrivare sul fondo, a raccogliere la speranza, che per lui è la forza indomita che lo spinge e lo guida.
Stamattina la gatta dormiva, accoccolata sul cuscino, con una zampa sul muso per non percepire la luce. Il guerriero giaceva svenuto poco lontano, occupando quasi tutto il letto col suo peso, lasciando a me solo il mio piccolo angolo sudato di paura sulle lenzuola profumate. E dentro di me c’era soltanto l’acqua, a tratti nera, a tratti meno.

Lo stomaco era stretto, il respiro aggrovigliato, il cuore batteva forte il suo urlo di dolore contro le pareti della mia camera, l’angoscia palpitava nell’aria, buia, furiosa e amarissima. Oggi non mi lascia, non se ne va. O forse sono io che me la tengo stretta, fino a che non ho capito quale sia la direzione che devo prendere.

Del resto, è domenica.
Adesso sono qui, in un silenzio assordante, e non sento niente. Sono usciti tutti, i miei demoni, e mi abbandonano quieta, nella mia inquietudine, a guardarmi e ascoltarmi. Adesso, in questo preciso istante, sento solo silenzio, anche se sto ascoltando il piano che suona.

Uno spaventoso, dilagante silenzio che increspa il fondo del vaso, pieno di fango, e muove, inspiegabilmente, qualcosa che ancora non so che nome abbia.

Il silenzio mi fa più paura di qualunque altra cosa, più della notte, più delle urla lancinanti, più delle lacrime furiose, più del battito martellante.

Mi fa paura ma stavolta non mi difenderò e lo lascerò fare. È l’unica cosa che posso.

E poi, passerà la nottata. E forse ritroverò la mia incrollabile speranza.

Nel frattempo, lascio la porta aperta e aspetto che tornino. Tutti e quattro.
Il dolore, l’angoscia, la collera, il silenzio. I miei demoni.

1 commento su “Del dolore e di altri demoni”

  1. Un pezzo bellissimo ed una descrizione splendida, che riconosco in pieno, quindi, rubando un’espressione ad un mio professore ai tempi dell’università, “molto giusto!”

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