Dal greco ὀξύμωρον (ὀξύς ‘acuto’ e μωρός ‘ottuso’), l’ossimoro spiega da sé il suo senso ed il suo uso: consiste nell’accostamento di due termini antitetici in una combinazione che crea un originale contrasto, ai limiti del nonsenso. L’ossimoro in sé, in effetti, è un ossimoro.
È per questo che è strano e divertente raccontarvi che siedo sulla terrazza di Ground Zero e scrivo.
Come fa un luogo raso al suolo ad avere una terrazza?
E invece il luogo in cui ho scelto di vivere dopo essere stata rasa al suolo ha una terrazza favolosa, che accoglie e raccoglie chi si siede al tavolo, tra una bottiglia di bollicine e una bella canzone che suona.
Ed è per questo che non è strano, qui, sulla terrazza dell’impossibile, pensare che abbia un senso sentirsi dire: ‘Sono al punto di non ritorno, devo tornare’. Forse era meglio dire “Andare”.
In un tòpoς che è di per sé un ossimoro, la figura retorica si stende splendida nell’aria fresca di una sera di maggio, e pare sensatissima, anche se la mia feroce intelligenza da bambola sapiens sapiens mi ricorda che non ne ha, di senso. E non è che voglio cercare un senso a questa storia, anche se questa storia un senso non ce l’ha. Non ho un approccio nichilista all’esistenza.
Ce l’ha, ce l’ha, è che ognuno di noi attribuisce il senso che vuole, alle cose. Ed è questo che rende l’esistenza un’esperienza affascinante e meravigliosa e non solo una vuota sequenza di giorni tra il nascere e il morire.
Perché la bambola intelligente ha appena imparato che ek-siste: che c’è ed è fuori, e che fuori fa un freddo cane. Ha imparato chi è, o che è Chi.
Chiara e oscura, limpida e profonda come l’acqua della Fossa delle Marianne.
E questa non è un’antinomia. L’antinomia (αντι, preposizione di ‘contrapposizione’, e νομος, ‘legge’) è un paradosso che indica la compresenza di due affermazioni contraddittorie, che possono essere entrambe dimostrate o giustificate: una bambola intelligente, una bocconiana scrittrice, una amante infedele.
Se invece, anziché cercare una definizione di me, semplicemente ek-sisto, smetto improvvisamente di percepirmi come una figura retorica incasinata.
Il grammo di angoscia che assumo, tossica, ogni giorno? L’Angst che mi attanaglia da sempre? Ecco a cosa mi serve: a costringermi a guardare dentro. A vedere che c’è tanto, ma proprio tanto, da guardare. Dicevo, appunto, profonda. È per questo che da settimane mi sveglio tutte le mattine col cuore che rimbomba sui muri e le mani ghiacciate: perché finalmente posso smettere di pensare di essere un’antinomia che abita in un ossimoro.
E allora la signorina Maori adesso si diverte a giocare con l’alfabeto, tra gli anagrammi e le allitterazioni, cercando di esprimere con ironica sufficienza la sua voglia di uscire dalla bolla di vuoto che per anni e anni ha sentito dentro, perché a lei piacciono i rompicapi.
Chi sono? Sono Chi. Ma Chi, io?!
E se il Chi e il Ki sono la stessa cosa, allora Akira è l’anagramma del mio nome, e questo spiega la voce della piccola bambina normale piena di poteri strani, che le fanno sentire cosa succede prima che succeda, che le fanno capire cosa stai dicendo anche se stai zitto.
Un anagramma (ανα, prefisso per ‘sopra’, e γραφειν, ‘scrivere’, la mia preferita) è il risultato della permutazione delle lettere di una parola che crea un’altra parola di senso compiuto non di rado affine al contesto originario.
Me ne viene un altro, di anagramma, che insieme a questo è anche un’antinomia e il titolo di uno dei pezzi che mi fa venire più brividi al mondo, ma l’ho già scritto, altrove. Rimarrà un segreto sussurrato alle orecchie di chi lo capisce, pur se pubblicato sul web, che racconta la musica, l’amore e il moto a luogo. Una metafora, anche, un po’.
In questi giorni, nella strana follia che si è impossessata di me, ho riaperto il mio vecchio libro di poesie di Neruda e ho ricordato Massimo Troisi che guarda umile Philippe Noiret e gli chiede: “Don Pablo? Che sarebbe?”, e Neruda, che ride, risponde: “Le metafore? Beh … le metafore, come dirti … è quando parli di una cosa paragonandola ad un’altra…”.
“Per esempio?”.
“Per esempio? Il cielo piange.”
La metafora (μεταφορά, ‘che porta attraverso – trasporta’) è un tropo che implica un trasferimento di significato: avviene quando si sostituisce un termine con un altro la cui essenza si sovrappone alla parola originaria creando immagini di forte carica espressiva.
E come Pablo Neruda, allora, anche Ludovico Einaudi è metafora dell’amore.
O forse la sua Φυσις nel chiasmo di note e poesia.
‘Chi siede sulla terrazza di Ground Zero e scrive’ è una metafora della felicità. La mia.