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Dieci anni

*** da leggere ascoltando l’Hallelujiah di Elisa ***

Dieci anni, e tutto quello che rimane è una catasta di legna.

È tutto affastellato in buon ordine o appoggiato a caso?

È  costruito o solo accumulato?

Scoprirmi incredula a raccontare a una ragazza tanto più giovane di me, che mi guarda con gli occhi sbalorditi del romanticismo, di quel sabato pomeriggio in cui ho comprato il vestito per la cena dell’Alub. Noi, i migliori laureati di quell’anno, che dovevamo andare al cenone di gala con l’abito da sera, tra le candele e l’orchestrina e la pista da ballo all’aperto, a celebrare la nomina del Bocconiano dell’anno. Io, che non avevo un abito da sera. Il mio cavaliere che va in un negozio e ne sceglie uno che vuole regalarmi, ma non sa la mia taglia. Io che vado con un amico speciale nello stesso negozio e indovino il vestito e me lo compro da sola.

E il nostro amico speciale che racconta questa storia, due anni dopo, coi lucciconi agli occhi, davanti al pubblico gremito del nostro intenso e semplicissimo matrimonio civile, mio e del mio perfetto cavaliere. Noi due, il colpo di coda.

Di quel diciotto maggio duemiladue mi è rimasto il vestito nero nell’armadio, che oggi mi sta meglio di allora, il ricordo di un sogno romantico che ho fabbricato tutto nella mia testa, e quel pezzo di tronco spezzato in due nell’angolo in alto a sinistra della foto.

I ricordi si confondono e si mischiano nel tempo, come ceppi accettati, appoggiati in precario equilibrio l’uno sull’altro, che però non cadono, e se non li sposti si cementano di resina tra loro e non si muovono più.

Avrò costruito qualcosa, in questi dieci anni?

I contorni frammentati e ruvidi della corteccia sono come le ferite dell’anima, che non si vedono, sulla pelle, perché sono passate attraverso la superficie e si sono cicatrizzate sotto, dentro al modo di vivere, dentro al modo di amare.

L’insoddisfazione emergente e negata – come i tronchi disposti in orizzontale, al contrario del senso naturale;

il disorientamento levatosi spontaneo davanti all’inevitabile consapevolezza – cercando di indovinare se sullo sfondo si vedano solo luce e riflesso, o piuttosto un albero;

l’ebbrezza e la confusione meravigliata di riscoprire il desiderio e il pulsare del tunnel di energia che esce dal palmo delle mie mani – come le striature di colore diverso delle sezioni orizzontali dei tronchi.

Quel sentimento feroce e ingestibile che mi ha travolta, a metà tra passione e risata, tra vertigine e follia, e mi ha fatto cambiare tutto, di me. Una scelta sbagliata, una strada impercorribile, eppure l’unica che potevo imboccare, per arrivare qui da me. Due matrimoni, segni dell’inizio e della fine. Due bellissime foto in abito da sera, uno bianco e uno rosso, a decretare il principio ed il termine di un sentimento tanto intenso quanto devastante, che a null’altro è servito se non a traghettare ciascuno di noi due dove voleva andare.

Dieci anni, pezzi di legno.

Schegge conficcate nell’anima, rapprese col sangue nel mio codice emozionale, che hanno cambiato per sempre la mia singolarissima me.

Gli ultimi tre passati a cercare di decodificare lo sfondo della foto, ad imparare ad essere leggera e distratta, a guardare con gli occhi chiusi per ricominciare ad immaginare, a sentire con le mani e la pancia e non con le orecchie.

E scorgere, d’improvviso, luce e contrasto, disordine, distruzione creatrice. I confini nitidi della catasta di ceppi e lo sfarfallio torbido delle foglie sullo sfondo.

Quelle foglie, le mie emozioni, tremanti e insicure, spaventate e disilluse, vibrano nell’immagine come le ultime ninfee di Monet, fiori arancioni natanti sull’acqua sotto al ponte giapponese di Giverny, con lui già cieco che però, ancora, riesce a vedere, sentire e rappresentare.

Legna affastellata da anni, ceppo su ceppo, storia su storia, scelta su scelta. E quante decisioni, prese tutte da sola, col coraggio di chi ha la pelle delicata ma il cuore fiero.

Legna da conservare o da ardere?

Un blocco compatto da guardare tutto assieme, o un insieme aggrovigliato di cocci diversi e incoerenti?

Un’esperienza nuova, e diversa, nell’angolo in basso a destra. Una piccola tavola piatta, scheggiata, appoggiata in verticale.

Ecco, io faccio una cosa nuova. (Isaia 43:19-21)

Giusta o sbagliata?

Non so.

So che su quella tavola ci si è posata sopra una farfalla, stamattina. Una delle diecimila farfalle che sbattono forte le ali sul mio soffitto oggi pomeriggio, più nervose del solito.

Quell’unica che non vola si è posata, tranquilla, come a dirmi: ma perché non provi a prendere questa legna, spostarla da qui, e anziché bruciarla, pensare di costruirci qualcosa?

Lascia andare la paura, guarda lo splendore statico di questa vita che hai costruito, ceppo su ceppo, colpo d’ascia su colpo d’ascia, equilibrio instabile su equilibrio instabile e vola, vola, farfalla, che anche tu hai quel magico ed inalienabile diritto che è di tutti: quello di essere amata. Tu, così come sei, Lady Kerouac, col rhum e il sigaro, le lacrime sulle lenti, l’egocentrismo e la timidezza, braccia per tenere e fianchi per ballare.

***

L’immagine, nella sua immensa ed inspiegabile magia è sempre qui. Ma voi cliccateci sopra.

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