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Uno.
La colonna sonora è tutta di Nina Zilli, che mi accompagna in autostrada facendomi cantare a squarciagola, visto che non mi sente nessuno.
La coda, la solita maledetta coda a Masone, ha cotto per bene la mia pelle e il pelo di Chopin che, chiuso nel trasportino, non ne può davvero più, nè del caldo nè di me che canto.
Uscita di Imperia Est, il mare che bacia Porto Maurizio travolge lo sguardo e fa spuntare un largo sorriso entusiasta. La spesa alla Coop per fare colazione e comprare un bagno da viaggio al gatto, perdo e ritrovo le chiavi, e poi su per le curve strette per salire a Costa. Gira, rigira, gira, rigira, il gatto miagola, suona “L’inferno”, la casetta di pietra e colori e Hello Kitty mi accoglie fresca e amichevole come una sorella maggiore. Libero Chopin dalla sua sofisticata gabbietta di lusso, mi sciacquo il viso e risalgo in macchina, che stavolta la discesa non la faccio a piedi.
Plano al porto vecchio di Oneglia, e la Calata Cuneo mi sembra la via di casa, con le sue barche bianche e i lucciconi sulle onde increspate. C’è un sole pazzesco, furioso, che scalda la pelle nuda delle spalle e illumina il mio sorriso raggiante.
Un caffè shakerato con Barbara, bevuto dopo aver percorso a piedi tutto il lungomare dal porto all’anfiteatro, col mare che sbarluccica e le bici che corrono, specialissimo perché fatto di passi e chiacchiere, tante intense parole vere che fanno sentire viva, sedute come due ragazzette coi capelli corti e scompigliati, dritte in faccia al vento e al sole cocente, al caro chiosco che ci accoglie e raccoglie sempre.
Un’altra passeggiata, di ritorno alla Calata Cuneo, e un lungo aperitivo con Barbara, Federica ed Elena alla Conchiglia, e farci servire due prosecchi a testa sembra necessitare una laurea in persuasione. Quante cose abbiamo da dirci, tra mariti, fidanzati, non fidanzati, lavoro, pensioni, diete e aggiornamenti sul contesto.
E per finire la giornata, un altro bicchiere alla Marina e poi a cena da Giusy: cinque donne moleste e affamate, che bevono, spettegolano e gracidano come rane. Bello, una volta ogni tanto, fare la rana.
Talmente rana che il telefono si scarica, e non realizzo che l’iPhone jailbroken non deve spegnersi… e invece si spegne, dopo che ho spedito l’ultima foto via whatsapp.
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Due.
Chopin a casa della Skalluccia sembra trovarsi benissimo. Fa le fusa, gironzola, miagola, e dorme sui piedi di lei anzichè sui miei. Ci alziamo presto, lei col pensiero del lavoro e io col pensiero del telefono, senza il quale non posso raggiungere il mio guerriero Maori, così lontano e così vicino. Ciascuna di noi si mette a fare le sue cose, in una domenica uggiosa e non troppo fredda.
Una domenica da panico, con l’iPhone che non si riesce a ripristinare, tra parole, concetti, liti e un concorso letterario cui partecipare leggendo diecimila parole inutili e fastidiose. Però, però… a Borgomaro spunta un raggio di sole, il Relais è bellissimo, e stare vicina ad un’amica in un momento di difficoltà è una emozione complessa e speciale.
Da Borgomaro alla Marina c’è una mezz’ora di macchina, uno scalo a casa a cambiarsi i jeans, una carezza al gatto e “L’inverno all’improvviso” che suona a palla lungo la discesa.
Aperitivo al ‘Moletto’ alla Marina, tra il primo chiosco e il faro, con il cielo grigio pieno di nuvole, un lungo raggio di sole inaspettato, e un numero imprecisato e molesto di spritz. Mentre aspettiamo che Elena ci raggiunga, Tony ed io finiamo a ragionare della felicità, di quella che mi merito ma che non riesco nemmeno a congetturare, e intanto Federica si scola la sua birretta e se la ride di noi.
Dal ‘Moletto’ si guarda dritto verso Porto Maurizio, e stasera lo spettacolo è incantevole. Il sole tramonta tra le nuvole arancio dietro il Parasio, proiettando una luce caldissima nel cielo, il mare è bluastro e molto agitato, qualche surfista si avventura cercando un’onda speciale. Non fa freddo, e guardando al largo ci si innamora del crepuscolo, stasera che il confine tra il cielo e il mare burrascoso si scorge nitidamente.
C’è un odore salmastro e forte nell’aria, misto di acido e di vecchio. Ci spiegano i due marcantoni del Moletto che è l’odore delle “velelle” morte, delle piccole meduse blu che si schiantano contro gli scogli e sulla sabbia e diffondono i loro resti non esattamente profumati nell’aria.
Ecco, ho imparato un’altra parola in ligure. Vediamo, adesso so dire “nescio”, “lepego”, “baiginna”, “velella”… “belin” lo dicevo di già… Me ne hanno insegnate tante, anche troppe, e qualcuna non la posso scrivere, ma mi scappano solo quando sono lì con i miei preziosi pezzi di cuore.
Finalmentre arriva anche Elena, a raccontarci delle fantastiche avventure amorose di qualche amica spostata come noi due, e stasera la sua acqua frizzante non la beve nel flute, ma nel bicchiere normale, e poi ce ne torniamo a casa assieme, passeggiando lungo il porto nuovo, fino alle macchine, e andiamo a dormire presto, tutte e due col pigiama di Hello Kitty, nella casetta di pietra a Costa, che ogni volta che ci entro mi ricordo di quell’abbraccio pieno di intensità e desiderio trattenuto che mi ha avvinta due mesi fa, oramai.
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Tre.
Alzarsi alle sette meno dieci di mattina per partire alla volta di Pietra Ligure e fare colazione in un bar in riva al mare è la cosa più normale del mondo, un lunedì di aprile, nella completa e assurda serenità di questi giorni che dicono: cosa ci fai lì? Vieni a vivere qua.
È una giornata così speciale che si può raccontare solo all’infinito.
Guidare inesperta sulle curve in salita fino a Verezzi, scendere dall’auto sotto la pioggia perchè non affacciarsi da qui sarebbe quasi un reato, rimirare sbalordita lo spettacolo del mare increspato che si infrange sulle casette colorate di Borgio e la rocca di Verezzi arrampicata in fragile equilibrio sulla salita. Sentire le braccia del mio guerriero Maori che mi avvolgono da dietro; pensare che non me ne andrei mai, da adesso, da qui.
Fare due passi per vedere il paese e prendere un caffè, e invece finire a bere un prosecco in un dehors deserto dove fa il caldo che basta e l’oste è davvero gentile. Del resto, con una come me, come bere un caffè anzichè un prosecco?
Tutta la tecnologia Apple stesa sul tavolo, tra hotspots e auricolari bianche, i bicchieri vuoti, una sigaretta all’aperto sotto qualche goccia di pioggia, i telefoni che suonano, un paio di telefonate moleste e un senso di vaga magica serenità che si trova solo quando siamo in Wonderland.
Decidere di rimanere a pranzo e trovarsi a metà del pasto con un unico desiderio in fondo all’anima, espresso tanto bene con le parole dal mio Maori che mi guarda dritto dentro agli occhi.
Darsi un lungo bacio pieno di passione e privo di ferocia all’inizio di un bosco sotto la pioggia, poi passeggiare in silenzio dentro le mura di Finale Ligure; guidare di nuovo fino a Pietra e mettere gli stivali bagnati nella sabbia, guardando un pescatore che quasi dorme e cercando un futuro che è impossibile da scegliere.
Due birre, un toast diviso a metà, ed essere così belli che tutti ci parlano oggi.
Alle sette e mezza, umida ed emozionata, risalire in macchina e volare verso Costa dove ci sono Vavvi, Fede ed Elena che mi aspettano, cambiarmi in jeans in autogrill per darmi un vago senso di ordine e recuperare il gatto da casa, perchè, come dice la Skalluccia: “Non lasciamolo solo, portiamolo a cena con noi”.
Due bottiglie in tre, perché una di noi è ancora a dieta ferrea, chiacchiere ferocissime e parole vere sulla felicità. Quella che abbiamo e quella che non abbiamo. E per quella che sognamo? Ci saranno altre serate. Adesso c’è una barca che arriva da accogliere a braccia spalancate e una sbronza cosmica di pure bollicine da prendere alla Marina, coi marinai appena scesi da una traversata lunghissima da Formia ad Imperia e una donna stranissima ed enorme che si è lasciata sedurre dal Capitano (che però non ne aveva la minima intenzione).
Volare sulla barca per un passo troppo corto e per poco non cadere in mare, così sbronza che non ho nemmeno notato la colossale figura di merda che ho fatto. Per fortuna gli altri erano tutti (quasi) conciati come me.
Sedersi in cabina e concludere la serata a Sambuca e delirio, più morta che viva, con una quindicina di prosecchi sullo stomaco e l’aria salmastra stampata nelle narici.
Il porto di Imperia di notte è bellissimo. Sotto la pioggia e dentro la sbronza le luci blu fluttuano nell’aria nera, le barche ondeggiano sul pelo dell’acqua, e uno si chiede onestamente come questa classe politica dirigente possa aver messo in piedi un’opera tanto imponente e poi averla piantata lì, per bruciare in modi molto meno utili il denaro dei contribuenti. Ma è troppo tardi e abbiamo bevuto troppo per parlare sul serio di questa storia, ci penseremo domani.
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Quattro.
Risveglio di un primo maggio di pioggia, cercando un Maori tra le lenzuola anche se non c’è, e passeggiata sotto la pioggia per smaltire la sbobba, con cento foto da fare e dieci da spedire per sentirsi più vicini.
Tutti che aspettavamo il sole per fare la grigliata, e invece oggi piove, a tratti molto e a tratti “ubaiginna”… in questi secondi tratti passeggiare è umido, ma adorabile. Ho gli stivali zuppi e la testa che rimbomba di Prosecco, ma arrivare alla Foce a piedi è sempre emozionante, almeno finchè continuerò a trovare, sulla strada di pietre circondata di piante grasse e fiori rossi, a destra la roccia, a sinistra il mare e davanti la curva che piega verso il piccolo borgo colorato dove ho passato così tanto tempo, e così intenso, in questi anni.
Aperitivo dai “Sognatori” (che in ligure si dice “da” e non “a”): un bicchiere è più che abbastanza per richiamare i quindici di ieri sera, e poi pranzo da Giosuè al Nero di Seppia, con questi amici che sono diventati quelli di una vita, pieni di intesa e di confidenza. Una deliziosa bottiglia di Ormeasco a deliziare il palato, Branda Cujon e un primo speciale, di carbonara con gli asparagi al posto della pancetta, per me che non lo mangio mai, e un goccio del Rhum di Tony per concludere degnamente il pasto.
Siamo tutti insieme e siamo tanti e siamo belli, a ridere e parlare di cose serie, cercando di fare come si deve le somme per pagare il conto: Fede, Vavvi ed Elena, Tony, Donato e Andrea, detto Ciui che però non so come si scriva.
E poi ci sono io, che sono ancora un po’ sbronza da ieri, però sono contenta.
Il primo maggio di pioggia ci fa tornare di nuovo ai “Sognatori”, perchè ci prende il bene il posto e il nome.
Chiacchiere e sigarette e mare in burrasca, pioggia a catinelle e il triste cielo grigio blu di chi si deve nuovamente dire arrivederci; una lunga dissertazione con Federica su Ulisse: io, lei, Omero, Dante e Joyce. Un amaro, e ancora due prosecchi immorali da sorseggiare tra le parole, una botta di sonno e una di nostalgia.
La serenità che, oggi, non è un miraggio, ma un fatto.
E adesso qui, nella mia splendida macchina bianca, sempre ascoltando Nina Zilli e sempre sotto la pioggia, a scrivere queste righe nel pieno della grazia di quattro giorni meravigliosi.
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ecco cosa si legge, come memento, dai Sognatori
solo una: fantastico leggere i momenti passati insieme descritti così minuziosamente… meno male che ci sei tu…io non ne sono capace!
I MISS YOU!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!