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Mangasoftware

Sono il capo della delivery di una azienda dell’IT, gestisco ogni giorno trenta tecnici on-site e le telefonate isteriche e sconclusionate delle ragazze del dispatching, che fanno domande inutili e pongono problemi che non esistono; mi occupo di governare una struttura che logga le chiamate di manutenzione e le qualifica, organizza le attività, mette a disposizione parti di ricambio e ripara qualunque apparecchiatura che abbia la dignità di essere chiamata informatica, dagli UPS alle stampanti, passando per quei server che tengono in piedi servizi critici di mezzo paese.

Insomma, sono un nevrotico, stressato e sovraccarico governatore di risorse che lavora sessanta ore alla settimana, incazzato e malpagato, e nessuno, ma proprio nessuno, neanche mia moglie, capisce quanto culo mi faccio ogni giorno.

Stamattina sono sceso dal letto col piede sbagliato, mi dice mia moglie, per infierire.

Mah, io dico solo che sono certo che sarà una giornata di merda e che prima della fine avrò ammazzato qualcuno. Non potete neanche immaginare cosa sta per capitarmi: quel pazzo delirante del capo, che non sa più niente delle cose operative, ha deciso senza la minima coscienza che oggi fosse il giorno migliore per fare il rilascio definitivo del nuovo software del magazzino (che sono sicuro che non funzionerà mai), proprio oggi che ho organizzato l’inventario del nuovo sito e che devo gestire le solite puttanate che quotidianamente mi capitano.

Devo smazzarmi tutta questa roba e non ne ho nessuna voglia, lungo la strada per arrivare c’è anche coda e sembra che tutto l’universo ce l’abbia con me.

Arrivo a Usmate, nel nuovo sito, e i magazzinieri, almeno, sono già lì.

Sì, sono lì, ma stanno già bisticciando. Possibile che non riescano a fare una cosa senza litigare?

A guardarli sembrano Stanlio e Ollio, anche se si chiamano Matteo e Michele: uno alto e uno basso, uno magro e uno grasso, uno polemico e l’altro timido – probabilità di integrazione tendente a zero, specie se Michele continua a fare lo smargiasso e prevaricare l’altro che, se avesse il coraggio di imporsi, dimostrerebbe sicuramente di avere una testa oltre che le braccia.

Che il cielo mi aiuti. Sono le otto e tre quarti e io ho già dovuto riprenderli una volta, perchè anzichè gestire le parti in ingresso stanno questionando su chi utilizzerà il nuovo software. Ma perchè? Pensano davvero che funzionerà?

*Ma soprattutto, pensano? Ma la piantano di pensare e lavorano che qui è pieno di stampanti da mettere a posto?*

Alla spicciolata, in cronico ritardo come sempre (ma possibile che alle otto e mezza non siate già tutti sul posto?) arrivano Dado, Simone e Juan, i miei tre pezzi da novanta. Non sto scherzando, sono i miei tre junior migliori. Bravi, svelti, intelligenti e anche poco rompiballe. Capiscono al volo quello che dici, non hanno bisogno di esortazioni e nemmeno di ulteriori spiegazioni, solo che sono giovani e fanno un gran casino, a parlare di cosa hanno combinato ieri sera con la fidanzata d’occasione nel locale più fico del pianeta.

Dieci minuti, quattro chiacchiere per assegnare i compiti, cinque caffè (ne ho fatto uno in più  e me ne bevo due, tanto ho bisogno di adrenalina) e i miei ragazzi cominciano a inventariare queste quattrocento stampanti mezze cannibalizzate che sono ammassate a caso in un angolo del nuovo magazzino.

Il mio telefono suona. Meglio se vado in ufficio, solo che devo aspettare quelli del software, che palle.

Alle nove e mezza,  comoda e svolazzante come una libellula d’estate, arriva lei, col sorriso smagliante di una che sta per fare una sfilata di moda e che non ha la più pallida idea di cosa sia un inventario. Ma perchè l’hanno mandata? A cosa ci serve un PM oggi, che bisogna lavorare?

Si chiama Alice, ma sembra Valentina di Crepax, appena uscita dritta dritta dal fumetto come Kim Basinger da Cool World: dice che ha trentacinque anni ma ne dimostra a stento ventotto, si presenta in magazzino con un vestitino di maglia nera aderente e le decolletè rosse, e soprattutto lascia una scia di profumo di talco e legno che distrarrebbe anche un sasso e ha l’aria svagata di una che cammina portandosi dietro il ritmo di “Tu amor me hace bien”.

Perchè la stronzetta sculetta, eccome, e me li distrae tutti.

Al suo seguito, giusto per complicarmi la giornata, si è portata il genio del male, il capo degli sviluppatori, uno magrissimo e acuto che parla sempre di record e di query con quell’insopportabile tono compassato e competente che mi dà una noia incredibile.

Arrivano, lui si siede sull’unica scrivania che abbiamo a disposizione e comincia a trafficare con la tastiera; lei si arrocca sopra una pila di scatoloni, accende il suo maledetto MacBook, mi sorride, mi stringe la mano, non mi chiede niente. Non la rete, non informazioni. La stronzetta pensa di poter fare tutto da sola, mi snocciola in dieci secondi il programma della giornata, di cui francamente non ho ascoltato una parola, mi chiede il permesso di strutturare liberamente il baby sitting e poi scompare tra gli scaffali e i pallet.

Cammina, svolazza tra le stampanti, guarda, chiede ai ragazzi, va e viene.

I due geni sono qui oggi perchè ieri sera la loro società ha fatto il rilascio ufficiale del nuovo software, lei è qui perchè a fare il babysitting ci hanno mandato “la migliore”, che sarebbe una inutile PM, e lui è qui per risolvere i bug di codice che con certezza matematica emergeranno ad ogni piè sospinto. Lui legge e scrive e corregge codice; lei raccoglie problemi, segnala errori e propone soluzioni.

Almeno così dicono. Ma io non ho tempo da perdere e me ne devo andare, per forza. Quindi li lascio qui a fare i loro ineluttabili danni.

*Ma se fanno casino stavolta li sfanculo. Eccome se li sfanculo.*

Torno dopo un’ora e se guardo il magazzino non si è mossa neanche una scatola, e questo non è un buon segno. Lui è sempre annegato nel suo monitor e nelle sue righe di Sql, lei sorride, parla al telefono e interagisce fitta con i miei uomini, che sembrano fare a gara a chi le fa una domanda, anzichè lavorare.

È impossibile portare avanti l’inventario con un fumetto sexy che si aggira libero tra le stampanti: i ragazzi perdono il conto e ricominciano da capo, almeno così mi pare, intanto che guardo il file di excel su cui stanno registrando le operazioni, mentre lei fornisce una schiera di inutili consigli sulla gestione ottimale delle informazioni e su come si potrebbero adeguatamente sparaflashare i codici a barre anzichè scrivere a mano. Ma che ne sa? Ma perchè mi hanno mandato questa croce?

Vado da Michele, il magazziniere corpulento e casinaro, e gli chiedo come vada. La sua risposta è facile: non funziona niente e sono fermi con la gestione delle chiamate.

Volo dallo sviluppatore, col piglio del killer seriale: “Come sarebbe che siamo fermi?”

“Qualcuno ha sbagliato ad inputare un CAP e ha crashato il sistema, nessun problema, sto sistemando”.

*Io lo strozzo: come ‘nessun problema’? Ma si rende conto di cosa dice??*

Mi saltano i nervi e piombo addosso alla brillante e inutile consulente che mi hanno appioppato stamattina, la signorina fumetto e rigore, sensualità e massimo dei voti. “Senti, dottoressa, cosa cazzo sta succedendo? Il server piantato, il sistema crashato, chi ha fatto ‘sta cazzata galattica?”

Lei mi guarda col suo sorriso candido e tranquillo, trangugia un goccio di caffè e commenta “Michele.”

“Prego?”

“Ha inputato un CAP errato, ha ignorato l’errore di sistema e piantato tutto. Gli ho spiegato che non lo deve fare. Poi ho detto a Samuele di correggere il codice in modo che non possa capitare più. La stabilità del sistema non può dipendere dall’inesperienza dell’utente.”

*Ma come parla questa??*

I mie nervi sfrigolano e lei è calmissima. Ma come fa?

Il genio dei numeri guarda il monitor come Nash davanti al vetro pieno di formule, lei si alza e mi dà le spalle, ondeggiando sinuosa al ritmo della salsa che le suona nel cervello, poi si gira e mi guarda “Sta’ tranquillo, ci penso io.”

*Tranquillo??? Ci pensi tu??*

Il software va, poi si pianta, poi va, poi si pianta. I ragazzi discutono su cosa contare come, fanno e disfano l’inventario, mentre io devo andare e venire dall’ufficio e sopporto questo telefono che squilla incessantemente. Domande inutili, problemi che non vanno posti, gente che vuole le ferie in giorni di massimo carico… Il software non sembra funzionare come dovrebbe (ed io lo sapevo), l’inventario va avanti, domani parte il lavoro nuovo e noi non stiamo gestendo neanche quello di oggi, ma come posso fare ad uscire da questo tunnel?

In un momento di ebbrezza e sclero, mentre lei sfarfalla in giro tra le mie stampanti, le sfurio in faccia: “Se alle tre non funziona tutto andate tutti a casa e torniamo al vecchio sistema. Mi sono rotto di queste cazzate con cui cerchi di condirmi!”

Lei mi guarda, con gli occhietti a mandorla che per un secondo mi illudo si stiano riempiendo di lacrime, poi si inalbera come un tacchino ingrifato, alza la voce e dichiara “Bello, guarda che so cosa sto facendo. Stai buono, fidati di me e lasciami lavorare. Per le tre tutto sarà pienamente operativo e dovrai anche dirmi grazie.”

Abbasso le orecchie, stordito dal suo tono autoritario e terribilmente femminile. Poi giro i tacchi, noncurante, e me ne vado, incazzato blu.

*Fidarmi di te? Tu sei matta, e, soprattutto, sei donna.*

Nel frattempo, mentre viaggio in macchina alla velocità del suono, c’è da fare una conference call per formare anche quelli della qualifica. Stiamo freschi.

Sono nel panico. Qua nessuno capisce un cazzo e lei continua a sorridere come se niente fosse. Mi fa venire i nervi. E se non bastasse il suo telefono squilla continuamente e lei flirta con gli sms. Non la posso proprio soffrire, questa fighetta bocconiana che sembra nata per comandare e sbattere le ciglia.

Si accoccola coi gomiti sullo scatolone, davanti al suo piccolo e prezioso monitor, e comincia a dialogare da remoto coi ragazzi della qualifica sparsi tra l’ufficio e le sedi remote. Non la posso soffrire. E invece tutti l’adorano, solo perchè ha un bel culo.

Alle due torno e, cazzo, i ragazzi dicono che funziona tutto e lo sviluppatore se ne va.

*Io lo so che adesso qualcosa va storto.*

Eppure, porca troia, tutto sembra filare liscio.

Lei, con la sua aria da signorina Rottermeier, si siede vicino ai magazzinieri e spiega come si usa il software, con una pazienza che non le avrei mai attribuito, risponde al telefono, digita veloce sui tasti, prende appunti, ride e reclina la testa all’indietro e accavalla quelle gambe lunghissime che distraggono gli interlocutori.

Parla, parla, parla e Michele e Matteo la guardano imbambolati.

*Ma sono deficienti? Ho capito che è bella, però… In effetti, è così bella che sembra quasi intelligente.*

O è così intelligente che sembra anche bella? Sì, sarà, ma è sempre una femmina, cosa pensa di capire del nostro lavoro?

E mentre le attività procedono, Dado la porta a bere un caffè, poi Juan la accompagna fuori a fumare le sue sigarette nel pacchetto nero da fighetta, le parla di ballo latino e la invita a uscire con lui, poi Simone commenta la sua bella macchina e le chiede quanto abbia speso per comprarla. Lei ride, fa spallucce, dice che l’auto è costata venti cappa ma è in leasing. Figuriamoci, la smargiassa con l’Audi A1 bianca, capace che neanche la sa guidare.

Lei guarda i miei tecnici, li ascolta e ha un sorriso personalizzato per tutti: l’animatore sexy di venticinque anni, il sudamericano col sangre caliente, il genio pallido e brillante della riparazione dei plotter.

Michele, un magazziniere, fa il deficiente. Matteo, l’altro, è timido come un diciassettenne, e la ascolta rapito come declamasse un carme di Catullo mentre gli spiega come si fanno entrare le parti di ricambio nel sistema.

Lei, intanto, traffica col portatile, risponde al cellulare, illustra e gestisce cinque uomini in un colpo solo. Per un momento un pensiero fugace mi passa per la testa: *Ma perchè il capo non assume una come lei da noi? Ops, cosa ho pensato?*

Mi richiamano dall’ufficio: è urgente. Questione di mezz’ora, vado e torno.

Alle cinque eccomi a Usmate, coriaceo e indiavolato, e perlamadonna funziona tutto. Inventario finito, parti spedite, personale formato. Stento a crederci.

I tecnici se ne sono andati, un magazziniere anche.

Lei è sempre appollaiata nel suo angolino freddo, come se non si fosse seduta mai, fresca come una rosa e leggera come una libellula, e scrive, scrive, scrive sulla sua tastiera bianca e sottile.

*Cazzo scrive?

Porca troia, scrive la relazione di fine giornata e mi toccherà anche farle i complimenti, a ‘sta stronza*.

Alle sei e mezza anche Michele se ne va, con le ultime parti da recapitare al traco per la spedizione, e rimaniamo io e lei, soli, nel magazzino ghiacciato di Usmate.

Io, lei e le sue fottutissime calze autoreggenti che si intravedono in trasparenza quando cammina.

Non le rivolgo la parola. Schiattasse se le dico un grazie.

Lei si muove dalla sua postazione precaria ma evidentemente funzionale e cammina verso di me. Lunga, dritta, fiera e tranquilla. Mioddio quant’è bona.

Si avvicina e mi inonda di parole. Secondo lei, mi aggiorna su tutto. Sconvolto dalla stanchezza, capisco a stento quello che mi dice. Faccio appena a tempo a dirle che sono d’accordo, che lei ha già schiacciato invia e messo in produzione il software e i tre processi operativi che mi ha appena raccontato in settantacinque secondi.

*Ma come fa?*

Cazzo.

Il suo telefono squilla. Da come parla si intuisce che è una telefonata personale e forse fastidiosa. Con classe proverbiale lei sfancula il suo interlocutore e mi guarda, fisso.

“Senti, qui abbiamo finito. È stata una giornata lunga. Bevi un aperitivo, così, per distrarci?!”

Non ci credo. Questa inutile femmina velocissima mi ha appena chiesto di uscire. E io? Che faccio?

È il mio, di telefono, che suona stavolta, e porca troia è proprio il capo che vuole sapere come è andata e non mi molla più.

Faccio un gesto di diniego senza pensarci troppo, e non mi rendo conto di cosa ho appena fatto.

Lei sorride, come sempre, come se niente la sfiorasse. Digita veloce qualcosa sul suo iPhone, mentre io ascolto il capo che parla.

Lei prende il pc, mi fa una carezza su una guancia, io mi scosto diffidente, lei sorride e se ne va, lasciando dietro di sè quel profumo buono e quella scia evanescente di musica latina.

Forse le mie orecchie sentono suonare “Lamento Boliviano”, mentre guardo quel bel culo che ondeggia davanti a me e il suo viso da bambola che si gira un’ultima volta. Mi sorride, ancora. Ma cazzo.

Ma cazzo, che giornata.

 

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