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Ad Alice, che mi dice *poi un giorno mi spieghi di Alice.*

Mi serviva un nome. Tutto qua.

Nell’estate del 2009, mentre la mia vita si arrotola e si assottiglia e l’aria non basta mai e non ho un posto dove mi sento bene che non sia la mia fottutissima smartina, scrivere diventa di nuovo importante. Così importante, dopo secoli di silenzio, che abbozzo timidamente il Guscio (che ancora non si chiama così).
Un pomeriggio di agosto, in viaggio da sola, scopro che non ho desideri e non so chi sono. Io non ho desideri. Io non ho desideri? La scoperta è devastante.

Rileggo ‘Oceano Mare’ e vomito lacrime per un’ora. Rileggo di Ann Deverià e scopro che non so più (o non ho mai saputo) desiderare. Figurati sognare. E non so chi sono.

Cazzo. Io non so chi sono. Con la minuscola.

Allora mi metto in testa di farmi un regalo. Anzi due. E per il mio trentaduesimo compleanno mi regalo un tatuaggio e un autoritratto. Un’allitterazione delle vocali.
Mi tatuo il mio Chi all’altezza della prima vertebra, per darmi la forza di dire chi sono (e che sono Chi) e di portarmelo sempre fieramente in giro. Sempre. Fieramente. Perchè adesso io lo so che sono una ballerina e cammino eretta ed elegante. Incantevole, come dice Fabri.
Passo giorni a cercare di scrivere come sono fatta. Non so chi sono, ma se mi cerco bene, almeno, come *sono fatta* lo so. Ricomincio da lì. Non da un’effimera illusione. Da come *sono fatta*. E scelgo di regalarmi un autoritratto in trentadue capoversi sul samba di Stan Getz che amo di più, come fossi Teresa Batista.

Mentre ci penso e ascolto e riascolto *one note samba*, capisco che mi serve la terza persona singolare. Che non ho il coraggio di dire Io. Dire Io è come dire Chi. Ci vuole forza. Non ce l’ho. Non ancora. Allora mi serve la terza persona. Allora mi serve un nome.
Che nome?
Le suggestioni sono tante. Due sono fortissime.
Alice di Lewis Carrol, quella vera, non quella di Disney. Ci sono le pagine dei libri senza figure, come nel Guscio. C’è wonderland (nel suo senso etimologico e magico), affascinante e angosciante. Ci sono infinite porte troppo grandi o troppo piccole da aprire. C’è il Bianconiglio. E quindi la pillola blu e la pillola rossa di Matrix.
E poi c’è Alice di De Gregori, che guarda i gatti e i gatti guardano nel sole e il tram di mezzanotte se ne va e tutto questo Alice non lo sa.

E allora scelgo lei. Lei è Alice. E Alice è perfetta per il mio autoritratto.

Al’inizio non è così com’è adesso. Lei si affaccia timidamente a se stessa. Poi, piano piano, a raccontare la storia, Alice si affitta e si sistema una casetta, che sarà anche una casa giocattolo da sposini romantici dove fa sempre troppo caldo o troppo freddo, ma almeno è la sua. E allora c’è LacasadiAlice, dove andare stasera a cena, con la pietra ollare e il vino rosso. Poi ci sono le foto, di Alice. Che se la guardi bene la riconosci. Che chi la guarda con gli occhi di quell’obiettivo, la vede. Poi il Guscio si popola di personaggi con un altro nome e piano piano Alice diventa Alice.

E adesso ogni tanto, mi succede di parlare di me in terza persona. E quando voglio dire una cosa, di me, la dico di lei.
Lo dico di lei, che Alice ti mette gli occhi negli occhi e vuole l’anima e il sangue. Chi mi legge, lo legge di me. Ma forse anche di tutte le Alice che hanno le *Ali*. E la giustizia del mondo punisce chi ha le ali e non vola.

Da qualche giorno ha anche un alterego newyorkese. Si chiama Alyce ed è una vera stronza.
E a me piace un casino.

Tutto qua. Grazie Alice, quella vera. Cammina alla stessa altezza del tuo nome.

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