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Verona, by night

Dopo una giornata di lavoro, quindici minuti di cammino sotto il sole non sono quello che ci vuole. No. È stata una giornata faticosa; per nessuna ragione in particolare, a dir la verità. Non è successo niente di così rilevante, eppure il lungo trascinarsi inconcludente di alcuni aspetti è più faticoso della loro risoluzione. Uscire da quel posto, cercare di distrarsi. Almeno per un po’. Questo è un buon obiettivo, per il momento. Un minuto fa il telefono di Mara ha suonato e, anziché la solita voce un po’ depressa che le dice “son qui fuori che ti aspetto”, c’è Alice, che se ne esce con una proposta al limite della decenza: perché non vieni qui a piedi? Lei è seduta fresca fresca in un locale non lontano, passa il suo tempo a scrivere sotto un gazebo all’ombra e, apparentemente, non ha la benché minima intenzione di muoversi da lì. In effetti, però, una birra ghiacciata e un panino prima del  viaggio sembrano una buona idea. Peccato che per arrivare a destinazione ci sia un quarto d’ora di cammino di buon passo, sotto il sole agostano, con una borsa e una giornata di lavoro sulle spalle.

Eccola laggiù, seduta ad un tavolino quadrato, col suo inseparabile portatile, due birre e un’espressione indecifrabile sul viso. Misterioso legame, quello con Alice, il “capo spi”. Si cono conosciute sul lavoro, e a guardarle non hanno niente in comune, tranne forse il pallore da nobildonna del diciannovesimo secolo. Una bionda, una mora. Otto anni di differenza. Cresciute altrove e in posti lontani, educate diversamente. L’una femminile, paziente, armonica; l’altra androgina, frenetica, maldestra. Alcune passioni ancestrali in comune: la teoria (se utile), il vino, la cucina, la bella conversazione, la notte nella città. In comune hanno anche un progetto volante per trasformare la passione in atto, perché “non diventi un hobby” come ne “La finestra di fronte” di Ozpetek, ma allo stato attuale, solo un vago disegno di sogni ben orchestrati. Nel frattempo, un aperitivo e una giornata di turismo al femminile a Verona.

Il gazebo dell’Elettrauto, via Cadore deserta, caldo afoso, asfalto sudato, una bionda media fredda per recuperare una temperatura corporea tollerabile. Un sandwich di quelli che fanno loro. Un’altra birra. E con questo caldo, la testa gira un po’. La chiacchiera è vorticosa: troppe cose da dirsi, troppo arretrato che disordina le priorità. E come si fa a disordinare le priorità, col capo spi? Quando lavoravano assieme, la capacità di strutturare un indice che facesse da agenda era valutata massimamente. Ora come si fa a scardinare un’abitudine di questo tipo dalla conversazione? Mara ride, tra sé, pensando alla quantità di parentesi aperte e mai chiuse nel discorso, alle mille cose da dire, serie, facete, personali e professionali, alle domande da fare, alle risposte da digerire. Ride soprattutto perché anche Alice vacilla a causa della birra e sghignazza mentre si accinge a guidare.

Tra poco si parte: una notte e un giorno a Verona, a fare le turiste inglesi colte e spendaccione. Un tour cultural-eno-gastronomico in un insospettabile giovedì d’agosto, per salvare il capo spi da un guaio, che stare oggi e domani a Milano non è una grande idea. Puntatina a casa a buttare quattro cose in borsa e rinfrescarsi, un’ora e mezza in macchina a parlare parlare parlare, così tanto che si dimenticano l’autoradio spenta, una lite col navigatore satellitare che è scarico e non si accende per trovare l’albergo che le ospita, due telefonate a casa e poi via… sono le undici, la serata è appena cominciata.

Mara, come sempre, è in perfetto ordine. Nella borsa c’è tutto, dalla macchina fotografica alla bottiglietta d’acqua di scorta, però … proprio in piazza Bra, dopo un parcheggio fortuito e centro metri a piedi… crack! Una cucitura dell’infradito cede impietosa lasciandola claudicante alla ricerca di una bancarella abusiva che le venda una ciabattina just-in-time. Ma Verona è una città di lusso, mannaggia. Ristoranti e bar ammiccanti fuori dall’Arena in cui l’Aida è tutt’ora in corso, enoteche con tavolini in strada, negozi con vetrine illuminate e porte chiuse, passanti ingioiellati e… non un ambulante, nemmeno mezzo, nel raggio di tre chilometri. Ma come perdersi una serata così? E siccome, come dicevo, nella borsa di Mara c’è tutto, ecco il salvifico fazzoletto di stoffa della nonna che lega la scarpa al piede e, anche se sembra più un infortunio che un rattoppo, si può continuare a ciondolare in giro.

Mara e Alice passeggiano tra le luci e le voci della notte, un po’ si guardano attorno e un po’ si raccontano l’arretrato; ventiquattro e trentadue, solo l’ultimo anno trascorso assieme tra alterne, annose, faccende di lavoro, dimissioni malaccolte e assunzioni forzate, relazioni amorose ataviche messe violentemente in crisi, lunghe serate in enoteca a fare esperimenti per l’esame di Mara e il palato di Alice.

Verona alle undici e mezza di una sera d’agosto è un brulicare di persone tra le vie del centro: chi esce dall’opera e ha la fame erudita del dopo teatro, chi ha cenato e passeggia per digerire, chi cerca un locale dove trascorrere il resto della serata. C’è gente in piazza Bra, c’è gente al Castelvecchio, c’è gente davvero tanta, in piazza delle Erbe. Così tanta che nessuno fa caso all’ora, e quando la fame si affaccia esigente allo stomaco, reclamando qualcosa di più di un milanesissimo sandwich molto snob, lo slogan è: cerchiamo un posto che faccia al caso nostro. Già, al caso loro. Fosse facile. Trovare un posto con la musica bassa ma bella, che consenta una conversazione allegra ed amabile e, perché no, qualche forma di innocente socializzazione; un posto con un menù di tutto rispetto, che sia raffinato, sofisticato ma non eccessivo, e magari economicamente non troppo estroverso; un posto con una buona carta dei vini (Alice ci ha anche tenuto a precisare che odia il Bardolino e il Soave); un posto arredato minimal ma non freddo, accogliente ma non trascurato… il posto che cerca, stasera, Mara non lo trova. E finisce a bocca asciutta (anzi riarsa), a mangiare una fetta rettangolare di pizza alta, chimica e stopposa, seduta su un gradino in una traversa di via Mazzini, vicino a un’enoteca or ora chiusa e di fronte a una vetrina di Carpisa. In effetti, ci avevano provato a fare le fighette, sedute in un sedicente lounge bar in piazza delle Erbe. Ma un cameriere scontroso e annoiato non ha voluto collaborare. La cucina è chiusa, vero? Sì, ma vi porto la lista del bar. Okay, non c’è un granché.

Mara: “Selezione di salumi e formaggi”?
Alice: “Ma ce li daranno a quest’ora? Vediamo il dolce”
Mara, con scetticismo e fame: “Torta della nonna??”

Alice: “Mah… gelato con le fragole? No, però cazzo, ho fame… un toast?”

Mara: “Vada per il toast, ce lo faranno un misero toast – e lo stomaco che urla disperato – chiediamo al cameriere”.

Lo scorbutico non si sforza di aiutare due ragazze affamate in pieno centro. La cucina è chiusa, vi scordate la degustazione. Toast? A quest’ora? Gelato? No, la cucina è chiusa (l’associazione cucina-gelato rimane un mistero). Torta della nonna? Nemmeno. Le guarda e dice: se volete vi porto qualcosa da bere. L’esitazione si tatua sui loro visi, poi ordinano un bicchiere di Lugana e si ripromettono di tornare in albergo con almeno un gelato nello stomaco.

Alla fine, a salvarle dalla fame è una pizzeria di strada con una donna dell’est a scaldare i tranci, quadrati di mozzarella rigida scolpiti nella pietra gialla di un impasto misterioso con un vago aroma napoletano. Il mattone che colpisce impunemente i loro fegati ha una superficie fredda e dura di  10×7 centimetri. Come mangiarsi una fotografia con la cornice, in fondo.

Appesantite (e un po’ sconfitte) da una cena a base di cemento armato con ciabatta rotta e fidanzati che non rispondono al telefono, anche il sonno si fa sentire, per cui meglio andare a dormire e cercare nell’aria condizionata dell’albergo un po’ di ristoro agli incidenti, tragicomici, della serata.

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