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Una passeggiata nel Parco Nazionale

La mattina è calda, caldissima. La colazione è promettente: bicchiere d’acqua, omelette al formaggio, succo d’arancia, cornetto alla marmellata e una tazza grande di caffè americano sotto questo tetto di foglie larghe e limoni verdi. Vista la strada che farò, questa colazione me la merito! Il progetto è ambizioso: percorrere tutto il sentiero numero 2, da Monterosso a Riomaggiore, e tornare in barca. In effetti, scoprirò, col passare delle ore, che il progetto è troppo ambizioso per un paio di gambe non allenate, ma il bello dell’avventura è che sai dove cominci e non sai dove finisci e, tutto sommato, va bene così.

Il sentiero parte dal porticciolo vecchio di Monterosso, sale lungo il crinale di sinistra e costeggia un lussuoso albergo abbarbicato sulla roccia con meravigliosa vista sul mare. Il parco nazionale è qui. Il sentiero sale. Subito. Ripido. Riarso. Un sentiero traditore, che ti fa credere che ci sarà un parapetto e invece costeggia la collina a strapiombo sul mare. Al suolo terra marrone e grigio, e polvere, a destra il mare, blu, enorme e brillante della luce bianca e fortissima di questa mattina di agosto, a sinistra roccia e arbusti acuminati; non riesco ad aggrapparmi in nessun dove. Sono pochi minuti che cammino e, improvvisamente, sento che le vertigini salgono dalla pancia alla gola e scendono verso le gambe. Torno indietro? Ma noooo, dai, sarà un momento, vedrai che passa… C’è una scalinata. Lunga, infinita. Meglio le scale dello strapiombo.

Con la mia solita, inefficiente, andatura troppo veloce continuo ad andare e fermarmi. Andare e fermarmi. Andare perché le gambe vogliono salire, incuranti del fatto che i polmoni non ce la fanno e che la temperatura non consente un passo spedito. Fermarmi perché il fiato finisce, l’acqua non è poi così tanta e lo zaino sulle spalle pesa. Il sole picchia a 40° sulla pietra bollente di queste scale polverose. Intorno terrazze e terrazze di ulivi, limoni e viti. A perdita d’occhio c’è questa terra generosa e difficile.  Ci sono camminatori che scendono sorridenti sotto il sole delle undici di mattina e ti dicono.. “Go on, you’re nearly there”. Il vero problema è quale sia il “where” che intendono “there”. Cioè, questa scalinata verso il cielo prima o poi finisce. Come il primo mezzo litro d’acqua. Bassa e lontana c’è Monterosso, sommersa, stordita, di colore: il blu del mare, che sfuma ad un intenso celeste prima di diventare il bianco della spuma dell’onda, il verde e marrone spento delle terrazze, il giallo degli ombrelloni sulla spiaggia. Tutto annega in un insieme continuo di profumi: nell’aria, sulla pelle, sulle mani si sente la salsedine, il rosmarino, il limone e l’ulivo, se lo cogli, tra le labbra, l’aroma del finocchietto, e poi rovi di more e ribes e terra polverosa che si attacca addosso ed entra nelle narici.

Come diceva Montale: frusci di serpi, scricchi di cicale, picchi calvi, filari di alberi di limoni sul crinale, il palpitare lontano di scaglie di mare. Questo sentiero è propriamente ligure, non misterioso ma reticente, perché, al primo (ed unico) tentativo di mettermi in testa alla camminata mi propone, nuovamente traditore, una curva a gomito. E dietro la curva un sottile percorso di un centinaio di metri, largo poco più delle mie spalle, a strapiombo sul mare. Nessun appiglio. Nessun parapetto. La paura non è un’idea, e nemmeno un’emozione. È una faccenda fisica. Brutta. Dolorosa. I miei polmoni percepiscono il vuoto. Le mie gambe sono di cemento. Impossibili da sollevare. E però ci sono degli americani che, con ciabattine scivolosissime, percorrono questo tratto spensierati, senza alcuna difficoltà. Io invece non riesco a muovermi. I miei piedi non obbediscono al cervello. Penso al libro che sto leggendo: i sentieri si tracciano camminando. Che razza di metafora (se la vogliamo ancora chiamare metafora) della vita: ho paura delle curve a gomito, ho paura di non saper camminare da sola. Ho paura. Cosa dice quel libro? Dice che non la posso respingere, che lei fa parte di me. Se cerco di mandarla via, lei fa resistenza e diventa molto più cattiva di così. Okay, ho paura. Ho una fottuta, violenta, assurda paura. Gli americani laggiù svolazzano come Harry Potter sulla sua scopa volante e io ho paura. Di questi cento metri. Starò con lei. Con la mia cara vecchia amica fifa blu. Se le mie gambe vorranno, mi muoverò, piano piano. Come una perfetta sfigata fifona. Piano piano.

Quei cento metri, per me, sono un’eternità. Però, alla fine, sono invasa da un’emozione fortissima: mi sento leggera e felice. Cielo, ce l’ho fatta! La fine della paura è una voce che sale, forte e rotta, dal fondo dello stomaco. Sale e dice: piangi bambina, buttami fuori. E sorridi, e vengono giù un paio di lacrimoni grossi e caldi e forse un singhiozzo, come una bolla che esce dall’esofago e torna all’aria aperta. Solo che le mie gambe hanno fatto, in quei pochi minuti, la stessa fatica che avrebbero sostenuto nel partecipare alla maratona di New York. E tra un paio d’ore si faranno sentire.

Ecco l’interno della collina, ecco un vasto, fitto, parco di ulivi.  Foglie piccole, di un verde quasi grigio, che lasciano trapelare la luce bianca del sole riflessa dal mare, un silenzio spietato, interrotto dal ronzio di decine di insetti diversi. Intorno, profumo di limoni, salsedine, verde, polvere, spine, caldo, sprazzi di luce, blu quasi bianco del mare, roccia bollente, alberi secchi che protendono, vivi, i rami al sole, qualche casa, sparuta, qua e là… Poi di colpo, un’altra curva.

Il mare a picco sotto di noi.

E Vernazza, la seconda delle Cinque Terre venendo da Monterosso, abbarbicata sulla sua rocca. Un’esplosione di colore e vita, cento piccole case tutte vicine e colorate, rosa, giallo, arancione, rosso, attaccate l’una all’altra come i pezzi di un puzzle, una larga, una stretta, una così sottile che ha solo una finestra, e mille barche iridescenti nello sfolgorio della luce sull’acqua nel porticciolo. Una rocca, sulla roccia. Sembra una creazione spontanea della natura e non un’opera della mano dell’uomo, non si coglie il confine tra ciò che è e ciò che è stato costruito, questo posto è davvero “patrimonio dell’umanità” come dice l’UNESCO. All’avvicinarsi del paese il sentiero si fa più battuto. Tra noi e Vernazza c’è una lunga discesa di scale di pietra e polvere, alcuni gradini sono solcati dalle radici degli ulivi, altri sono visibilmente costruiti con pietre per permettere un’agevole, faticosissima, discesa. Sono due ore ed oltre che camminiamo, la calura del mezzodì pesa sulle teste e i cappelli proteggono dal sole ma fanno anche molto caldo. Un gatto sale contromano nel percorso e non si cura di me. Nemmeno un po’, nonostante le mie moine. Vernazza è ad un passo, minima e immensa, sommersa dai turisti e dai luoghi del commercio di ogni genere e tipo. E di colpo, di nuovo, la “civiltà”: profumo di pizza, focaccia, pesce fritto, vento fresco dal mare, voci di persone.

Un’intuizione stamani mi ha detto di portare un po’ di peso in più pur di mettere nello zaino telo di bagno e infradito. E l’intuizione è stata davvero geniale. La temperatura è intollerabile; le gambe tremano per la fatica, la calura, la paura passata ma viva; il sudore cola copioso e impietoso lungo la schiena, sotto lo zaino; i piedi urlano pietà per le scarpe un po’ strette e… oplà: basta un attimo per infilarsi le ciabattine e volare a tuffarsi in mare. Chi può dirci nulla in questo porticciolo dove la gente è varia e variamente agghindata come i mille colori delle barche attraccate qui?

Un tuffo rigenerante, una mezz’ora a pisolare sotto il sole, una passeggiata in salita (ancora!) alla ricerca di un posto dove mangiare. Ed eccoci qui, tre del pomeriggio, candela del sole sopra la testa, due Moretti ghiacciate da 66 cl, una pizza con pomodoro fresco e olive nere ed una focaccia di Recco. La gente che cammina, lenta, leggermente affaticata e lieta. Una giovane donna come me, con un’aria vagamente familiare… ma proprio familiare… Anna! Ecco riemergere dalle nebbie del passato, dai ricordi dell’università, Anna C., con suo marito Oliver e il piccolo Marco, che insospettabilmente compie un anno e mezzo, mentre io sto ancora a chiedermi cosa significhi generare. Un’altra birra, una chiacchierata, una sintonia mai gustata a fondo, ma nemmeno mai persa, che riempie l’aria, poi un treno da prendere, la promessa di rivedersi, la sensazione che forse, se ci impegniamo tutti, potrebbe anche succedere.

E ancora camminiamo, stavolta verso la barca, 3,50 euro e dieci minuti di traghetto sulle onde, mare agitato, sole che si abbassa. Gambe che pesano.

Quale miglior ristoro di una doccia e un bicchiere di bianco Cinque Terre freddo, in silenzio, a osservare con stupore l’infinito, dal terzo piano del giardino dei limoni?

Ci sono zanzare e altri insetti strani che mi volano attorno e mi pungono, un micio grigio con le zampette forse malate che vuole a tutti i costi socializzare con me, il rumore della tastiera del mio fedele notebook, il vento, il fragore costante, ripetuto, solidale del mare. Come un canto in canone dei miei lontani amici a Taizè. Come se tutto si potesse lenire e curare così, con le onde del mare che vanno e vengono, come le nuvole di De Andrè.

Come questo vino che sorseggio, come questa terra, ricca, secca e polverosa, profumata e salata, caotica e millesimata in un perfetto ordine non visibile, colorata su fondo grigio, spinosa ma avvolgente, come la vita che vorrei, che non so esattamente che forma abbia, ma dovrebbe somigliare a questa. Come forse l’idea, non brillante ma curiosa, di cercare un futuro qui. Magari non oggi, e però un giorno, scrivere, ogni giorno, ascoltando il rumore del mare…

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