Sono in una locanda. E’ carino. Il parcheggio è deserto, ci sono 3 macchine compresa la mia superecologica auto di “Ritorno al Futuro”. Al piano di sotto c’è un’osteria, si chiama La Limonaia. Al piano di sopra un corridoio lungo, con 6 porte (solo numeri pari). La mia è la stanza numero 10. Ha il soffitto inclinato perché sta sotto il tetto di questo casale, è alto e bianco, le pareti giallo chiaro, il pavimento con le piastrelle di un colore che sta tra il rosa e l’arancio. Davanti a me una porta finestra, chiusa perché c’è l’aria condizionata, che spalanca la vista sulla campagna. Si vede anche la cupola della Chiesa di Santa Maria dell’Umiltà di Pistoia.
Se non fossi sola, sarei in preda alla frenetica attività di organizzare meticolosamente la stanzetta per avere ogni comfort. Invece, non ho tirato fuori niente dalla borsa. Se non fossi sola, starei studiando guide e carte per dove andare questa sera e poi domani e poi dopodomani. Poi diventerei improvvisamente triste perché il tempo mi sembrerebbe troppo poco. Poi mi perderei nella mia solita iperattività e uscirei.
E invece, qui da sola, adesso, che faccio? Scrivo.
Poi cercherò di pianificare qualche possibile attività per domani, e magari per martedì. Firenze è a due passi, e anche l’Abetone. Praticamente, sono in un posto perfetto e non ho il coraggio di muovermi da qui.
E’ come se la mia libertà non fosse dentro di me. Come se fossi sempre tirata da qualcos’altro. Spinta da qualche forza esogena e quel che capita capita. Se sto da sola sono così, come paralizzata.
Vorrei che l’ebbrezza si impadronisse di me oppure sparisse del tutto. Vivere così è troppo difficile. Non ho vissuto tutti questi anni così perché era giusto, e onesto e buono, come direbbe Ann Deverià, ma perchè mi sentivo accolta, tenuta, custodita, protetta. Felice. Perchè è negli occhi e nella voce della mia stella polare che mi specchio e vedo, talora, chi sono.
Però c’è qualche cosa, dentro di me, che si è svegliato e non riesco a sopirlo. Si direbbe che è un animale, perché ha degli istinti molto forti e difficili da contenere. E questa cosa è quella che mi fa sentire il bisogno di “essere viva”. Ascoltare la musica a tutto volume, ballare fino a notte fonda, volere il giorno se è notte, il sole al posto dell’Orsa Maggiore, strillare con qualcuno che strilla altrettanto, uscire a cena e bere vino e mangiare il dolce e sentirmi chiamare “signorina”…
Ho sempre pensato che la mia gatta interiore (o è una tigre?) fosse cattiva. Sbagliata. E l’ho messa via. Mi sono promessa che sarei stata seria, compita, equilibrata (e quindi terribilmente noiosa?). E adesso questa cretina si è svegliata e fa un gran casino e io non so se devo darle retta o no, e quanto.
L’ultima giostra su cui sono stata a Caneva si chiama “Black Hole”. Vai in salita per mezzo chilometro con un salvagente gigante (e pesante) sulle spalle – diciamo che per prenderlo ci vuole l’ampiezza delle mie braccia, mentre il buco è leggermente più stretto delle mie spalle – poi arrivi in cima ed entri in una grotta. Il gioco sta nel fatto di sedersi (da soli) con il sedere nel buco di questo gommoncino grigio, entrare in una caverna nera con dell’acqua che scorre sui piedi, far scorrere il gommoncino all’inizio della discesa per trovarsi in un tunnel buio pesto e molto ripido, pieno di curve, in cui tu giri e giri e giri con l’acqua fredda schizza dappertutto finchè non piombi di colpo nella luce della piscinetta finale. Durata: un minuto.
E io che ho fatto? Da sola, in discesa, al freddo e al buio, in velocità, senza sapere dove vado… Mi sono divertita.
Queste cose fa la mia gatta interiore. Cose che non mi aspetterei da me. Però le fa. Ed è anche contenta. E come faccio adesso a dirle di stare buona e smettere di chiedere cibo?
E da un lato c’è questo bisogno di ebbrezza, di sperimentare il limite. Anche di soffrire molto perché il sole arde, ma brucia. Dall’altro c’è il mio bisogno di sicurezza, la mia incapacità di trovare requie da sola, la mia necessità di essere compresa e accolta e avvolta dalla sicurezza inattaccabile della stella polare, faro nella notte, unico riferimento del viaggiatore solitario.
Ci sono giorni in cui ho voglia di sale sulle labbra, di dita sporche di sabbia e succo di scampi, di sentire il vento che soffia sul mare e di nuotare verso le onde, giorni in cui non ho voglia di avere paura e vorrei stare in campeggio, o guidare per ore di notte.
Ci sono giorni in cui amo curarmi e farmi bella, cucinare una cena preziosa, comprare un dessert al cioccolato e pistacchio, leggere sul divano sorseggiando vino e ascoltando jazz, entrare in una chiesa e sentire la musica di dio, camminare in un museo con l’audioguida che, quasi, racconta una favola.
Queste due cose, assieme, non vanno un granché bene.
E io non riesco a scegliere. Nemmeno voglio, scegliere.
E così succede che il sole sa di sale e la stella polare sa di pistacchio, il sole sa di tenda in campeggio su un’isola della Grecia e la stella polare sa di tappeto arancione e salotto jazz, non riesco mai ad averli compresenti. O meglio, non riesco più ad averli compresenti. Perché se frugo nella memoria, in passato, anche la stella polare sapeva di sale.
Non so come uscire da qui. Non so cosa è più importante per me.
Non serve a molto essere Miss Mondo 99 se in fondo ti senti brutta e grassa.
Mi affaccio dalla finestra e le macchine adesso qui sotto sono sette. Qualcuno sembra essere arrivato a mangiare. C’è silenzio, e fuori si abbassa la luce del giorno e qualche lampione si accende in lontananza.
Non so se sono molto triste o no.
So che non vorrei separarmi da questa pagina, perché ho paura di diventare triste dopo.
Ora leggo un po’ di “guida verde” della Michelin, e poi decido se scendere a mangiare o no.