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Whatever Lola wants, Lola gets

*** silenzio, sui Gotan ***

Mentre torna verso il suo tavolo, Alice si compiace fra sé e sé della performance della serata.

*Pensavo di non ricordarmi neanche come si fa e guarda qua. Bisognerà trovare un modo per andare a ballare anche a Milano, però. Chissà dov’è finito Andrès, peccato …”

Si siede sulla sedia e, prima di togliersi le scarpe, fruga nella borsa alla ricerca del cellulare, abbandonato insolitamente per ore. Mentre controlla la posta per vedere se è arrivato qualcosa di importante (alle due di notte?), un’ombra copre la luce fioca del locale e attira la sua attenzione.

Alice alza la testa. Davanti a lei Andrès, sorridente, le tende la mano.

Ha ballato con tutte le altre, nelle ultime due ore, ma non l’ha persa di vista un secondo. Come gli ha insegnato sua madre, sa sempre dove sono tutti, sulla pista. “Quando trovi la ballerina per te non devi lasciarla troppo nelle braccia degli altri. È al tuo, di abbraccio, che deve abituarsi per sempre.” Sua madre parlava dell’amore, ma anche del tango. Della teoria e della pratica, della vita.

Andrès guarda il raggio di sole seduto sulla sedia, quella piccola supernova pulsante che sgrana un sorriso stupefatto mentre lui fa il cabeceo e le si avvicina.

“Did you save the last dance for me?”

Alice lo guarda interrogativa: “Ma la musica è finita!”

“Non esattamente, mariposa.”

 

In mezzo alla pista non c’è nessuno. Intorno, solo qualche coppia che si attarda a togliersi le scarpe e finire l’ultimo drink. Nell’aria, un leggero sottofondo di musica elettronica.

Andrès guarda verso la cabina del musicalizador e fa un gesto d’intesa, poi la prende per la vita e l’abbraccia, improvvisamente serio.

Intorno, il ritmo serrato e la melodia sensuale ed inquieta di un remix dei Gotan Project con la voce di Sarah Vaughan. Qualcuno lo chiama bachatango, perché nelle pieghe del ritmo c’è il ricordo lontano del passo base della bachata. C’è l’intensità della musica che sale, i passi che si fanno più stretti, i piedi che rimangono sul posto mentre il balance segue il ritmo della percussione bassa. Le ginocchia che si piegano, le terra che tira verso il basso, i visi vicini, le teste appoggiate, la mano sinistra di Alice sulla spalla di Andrès e quella destra arroccata al suo collo, che accarezza e si sostiene assieme. C’è la musica densa e ritmica, ovvia eppure incredibile, il tempo, il senso del canone, la reiterazione del moto che diventa sorriso e magia.

Questo è tango elettronico, intenso, passionale, terribilmente fisico, che Alice e Andrès ballano abbracciati fortissimo, molto lentamente, quasi a strattoni, camminando e fermandosi. Girano poco, sentono molto. Andrès le marca tanti ocho, negli incroci lei adorna solo con le punte dei piedi, tiene gli occhi chiusi, vibra e ascolta l’incredibile bandoneon sotto la voce roca e piena della cantante.

Il tango rallenta piano, Andrès stringe l’abbraccio, si ferma e balla in pochissimi centimetri, anche se la pista è vuota, in una volcada, espressione quasi impercettibile della danza allo stato puro, fino a fermarsi, inclinandosi lentamente in avanti per farla appoggiare su di lui e stendere la gamba destra nel finale.

“Grazie, querida, è stata un’emozione molto forte ballare con te.”

Alice arrossisce ed abbassa gli occhi.

“Bevi il bicchiere della staffa prima di andare?”

“Volentieri, ma dove?”

“Ci penso io. Vieni con me.”

Riposte le scarpe da ballo nelle borse, escono dal locale. Sarà il sudore, sarà la notte, sarà lo svarione, ma fuori tira un’arietta mica male. Alice si avvolge nella mantella nera e segue Andrès che cammina verso il Ponte Elisabetta. Lui ha ancora caldo, non sente il vento, non sente l’aria, ma solo il respiro luminoso di lei che gli cammina accanto.

Tra il Erzsébet híd e il Széchenyi Lánchí, lungo il Danubio, ci sono barche ormeggiate con le luci ormai spente, persone che passeggiano e un gazebo proprio ai piedi del secondo ponte. A guardarlo bene è l’inizio della fiera di bancherelle che si trova dall’altro lato, una specie di preludio alla festa.

Mentre camminano, nell’aria fresca della notte, parlano d’altro. C’è stato qualcuno, in un altro tempo, che ha detto ad Alice: “La tua voce è bellissima, quando parli d’altro”.

Alice sta raccontando le mille cose che ha visto di Budapest in questi tre giorni, con la leggerezza di chi è stanco ma sereno, senza fare alcun accenno alla mattinata infernale, e sorride tra sé. Andrès la ascolta e ogni tanto la interrompe con una domanda. Inspiegabilmente, si trova a parlare di quei ragazzi che ha visto a colazione stamattina, dell’impressione di viva felicità che gli hanno lasciato addosso, di come quello diventerà il tema di uno degli incontri di gruppo che deve fare. È strano: lui parla, lei lo ascolta attenta. Non è più abituato ad essere ascoltato con così tanta attenzione quando parla di sé.

Mentre camminano, lenti e assorti, lui le cinge la vita con un braccio. Lei sussulta: questo è lo stesso abbraccio di prima, però, adesso, è diversa la circostanza. Lui ride, spensierato, come se fosse la cosa più normale del mondo.

“Dimmi chi sei, bambina nel paese delle meraviglie, stai con me tutta la notte e dimmi chi sei …”

“Andrès, ti senti bene?”

“Mai sentito meglio in vita mia, Alice. Pensavi davvero che non sapessi il tuo nome?”

Lei lo scruta contrariata, aggrottando la fronte nella sua espressione da papera arrabbiata, poi ride.

“Non so se riesco a stare sveglia tutta la notte, ho il volo domattina alle undici.”

“Intanto, beviamoci qualcosa. Ti va? C’è un posto speciale qui, e troviamo sicuramente dell’assenzio.”

“Assenzio? Non chiedo di meglio.”

“Però … e io che pensavo che fossi una brava bambina!”

“L’ho scoperto una sera a Milano, con un amico stralunato di una amica. No l’ho mai più bevuto, dopo quella sera, perché è pericoloso, bere l’assenzio, ma me ne sono innamorata!”

“Ah. Già che ci sei, potresti innamorarti anche di me, per stasera?”

Alice rimane intontita a fissarlo.

“Così, bambina, tanto per fare. Innamorati di me, solo stasera.”

“Tu sei pazzo” dice, ma sorride, il raggio di sole.

“Certo che sono pazzo, se no che ci faresti qui? Aspettami un attimo.”

Andrès si avvicina al gazebo, col cuore che batte e un forte calore nel petto, e sta via un paio di minuti.

Poi torna, sulla riva del Danubio, con la bottiglia verde a forma di ampolla e due bicchieri.

“Ti va di sederti?”

“Qui???”

“Sì, farfalla. Qui, in riva al Danubio. Nel posto più squallido e forse inquinato della città. Ma fidati, siediti, alza gli occhi, e poi dimmi.”

Avvolta da uno stupido alone di magica fiducia, Alice si siede sul bordo della banchina e alza la testa. Sopra di lei, illuminato da una caldissima luce gialla, il palazzo reale dalle mille finestre splende nella notte nera e riflette raggi sulla superficie increspata del Danubio.

In effetti, uno spettacolo senza paragoni.

Seduta in riva al fiume, nella testa di Alice si assiepano immagini e ricordi. Sensazioni confuse, aggrovigliate, torbide. Francesco, Luca, le scelte della vita. Le passioni abbandonate e un leggero tremolio all’anima che recupera i suoi pezzi sparsi per terra. Come se capisse che non sono né cocci né frantumi, ma solo piccoli pezzi di puzzle che, semplicemente, ad un certo punto sono caduti dal tavolo. E forse non è così difficile chinarsi, raccoglierli, accostarli educatamente al disegno per scoprire, con calda sorpresa, che collimano con le parti mancanti del centro dell’immagine.

“Davvero, sai, non ballavo da secoli.”

“Lo so, o meglio, l’ho misurato.”

“Eh?”

“L’ho misurato da come ti sei lasciata andare piano piano, e da come non hai più smesso di ballare.”

Andrès assapora il ricordo dell’abbraccio di lei, il corpo sottile, il profumo leggero e stregato, le scarpe bicolore, il sorriso strabordante. Vede passare, veloci, nella testa, il sorriso delicato e triste di sua madre, la furia di Anja, l’aria da strega maliarda di Maude, le giornate grigie, le notti insonni. Tutto passa e poi si ferma, lì, su quel punto luminoso e timido che gli siede accanto.

“Mi piace tanto, il tango. Ma dentro, non solo la danza. Mi appassiona la musica.”

“Ne hanno scritte, sul tango, di cose. Ma quella che preferisco è che il tango è un pensiero triste che si balla. Dev’essere per questo che ti piace, secondo me. Perché da quel canale lasci passare tutti i pensieri tristi, la passione, la furia, la malinconia. Le metti lì, nel ballo, e così ti liberi della zavorra e conservi il ricordo dell’emozione.”

“…”

“Ho imparato a ballare con mia madre, quasi vent’anni fa …”

“Davvero? Con tua madre?”

“Già, con mia madre …”

Assorto nei ricordi, Andrès racconta ad Alice i primi passi alla practica, il nascente amore per quella musica strana e difficile, le parole di sua madre, i viaggi a Buenos Aires. Lei lo guarda stupefatta e attenta, commentando che ha sempre segretamente desiderato e mai detto ad alta voce che tanto le piacerebbe vederla, la città porteña.

“Sono anni che non ci vado. Da quando mia madre si è ammalata non siamo più tornati lì, insieme, e poi non ho avuto occasione … o forse non ho più avuto lo stimolo.”

“E non ci torni più?”

“Mi hai appena fatto tornare il desiderio di rivedere la mia città, farfalla sorridente.”

“Dimmi com’è, raccontami la vita, le case, le strade …”

“Ah, è difficile e contorta e incantevole …” Andrès perde lo sguardo nel cielo mentre racconta dei quartieri della città, delle milonghe, delle vie piene di gente. E poi, quasi sorpreso da se stesso, si ritrova a dirle che proprio la fine dell’estate europea sarebbe il momento perfetto per la visita della capitale argentina. Un periodo dolce, forse il migliore, per scoprire Buenos Aires, è proprio la “primavera” musicata da Piazzolla, quando i porteños iniziano a riempire i caffè, i ristoranti e le piazze della città e ballano il tango anche all’aperto, nelle vie del centro.

Per un attimo, perfetto e isolato nel tempo, tutti e due hanno la sensazione di poter prendere un aereo e andare a ballare, assieme, nelle viuzze di San Telmo.

“Tu eres muy hermosa, Alice”

“Posso fingere di non capire lo spagnolo?”

“Puoi fingere di non sapere che sto per baciarti.”

“…”

Andrès inclina il viso, si avvicina e, semplicemente, la bacia. Le labbra di Alice si schiudono, anche se non dovrebbe, anche se forse nemmeno vorrebbe. È che lei bacia così, con tutta la bocca, da dentro. Gli prende il viso tra le mani, si allontana, lo guarda negli occhi, silenziosa. Lui tace, la guarda. Sorride. Rovescia la testa indietro e ride. Poi le stringe la vita, e la ribacia. Di più di prima.

“Andrès … io sono impegnata. E tra otto ore devo prendere un aereo.”

“Anche io, querida.”

“Hai un impegno o devi prendere un aereo?”

“Tutte e due. E poi è la stessa cosa, o no?”

“E dunque?”

“E dunque guardiamo questa notte che va.”

Lui si gira verso il fiume e le circonda la spalla con il braccio, lei appoggia la testa sulla sua spalla.

 

Alle tre e mezza di mattina, dopo diecimila parole, un sacco di musica ascoltata con un’auricolare a testa dall’iPhone, qualche passo di ballo sul ponte delle Catene e un paio di dozzine di baci accesi come la milonga furiosa, Alice guarda la porta di vetro della hall dell’albergo.

“Vengo con te.”

“Sono le tre passate …”

“Vengo con te.”

“Devo alzarmi tra cinque ore…”

“Vengo con te.”

“Vieni con me …  e poi?”

“È così importante?”

 

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