L’autobus sobbalza a tratti, correndo in mezzo alla sconfinata periferia della capitale ungherese. Andrès sta in piedi, appoggiato con una spalla ad uno dei pali per reggersi, e scruta tra i passeggeri le due ragazze, presumibilmente italiane, che siedono poco più avanti: occhioni verdi, si direbbe la Monnalisa, parla incessantemente al telefono, sorridendo a tratti; la tigre in gabbia invece, improvvisamente chetata, scruta curiosa fuori dal finestrino.
Lui le osserva di spalle, e ne coglie solo i tratti salienti. La Monnalisa ha i capelli neri, lunghi e setosi appoggiati in maniera disordinata sulle spalle e scomposti dal telefonino appoggiato al viso, l’altra ha un taglio cortissimo su una testa color cioccolata e una chioma arruffata e sparata in aria, che lascia intravvedere un tatuaggio alla base del collo, malamente nascosto (o lasciato scoperto) dalla maglietta.
Andrès è troppo lontano per cogliere gli elementi della conversazione, e può solo guardarle da lontano, come un predatore alla fine della selva, pronto a balzare nella radura al momento giusto.
L’autobus rallenta per l’approssimarsi al capolinea, i passeggeri si avvicinano alle uscite. Le due ragazze si alzano per scendere, lui si avvicina. La scura scende veloce, l’altra, forse sotto il suo sguardo insistente, esita per un attimo, si gira e lo guarda interrogativa.
Lui le affonda gli occhi negli occhi, percorre per un attimo i tratti delicati del suo viso, assapora quello sguardo brillante e senza riflettere le dice, certo che lei lo intenderà: “Hope you’re feeling better. Tears don’t fit such a shiny face.”
Lei tace. Esita. Poi sgrana un incredibile sorriso di sorpresa e, di nuovo, abbassa gli occhi. Forse è arrossita. Forse no.
Andrès gira le spalle, scende dal predellino e cammina a passi lunghi verso l’ingresso della metropolitana.
Prima di scendere sulla scala mobile si volta a guardarla, ma non incrocia il suo sguardo, perché intenta a confabulare con l’amica.
*Forse è davvero solo una stronzetta.*
Eppure, quel sorriso stupefatto e confuso gli lascia addosso un vago senso di pulito e luce, cui lui non è avvezzo. Scrollarselo da dosso non è facile.
La metropolitana è veloce, grigia e fitta di gente che va al lavoro, la folla lo infastidisce e mal si concilia con quella strana sensazione di leggerezza che gli è rimasta cucita sulla pelle. Improvvisamente, Andrès sente il telefono vibrare: quattro email e un sms. Ignora le mail, che leggerà in ufficio, e si concentra sul messaggio di Maude: “Sei arrivato? Ho visto che hai trovato il libro. Passa una buona giornata, mon ami”.
La leggerezza scompare in un fiat.
Che strana, questa attenzione di Maude stamattina. Da lungo tempo lei non è più attenta ai suoi spostamenti, abituata ai viaggi di lavoro e alle assenze.
Maude è una donna indipendente e solitaria, difficilmente si ricorda gli orari dei voli o gli impegni professionali. La loro prassi consolidata è quella della telefonata serale: sempre all’ora dell’aperitivo, la preferita di lei. Dopo la giornata di lavoro, prima della cena, in una conversazione crepuscolare dove si raccontano pochi fatti salienti e lei indugia spesso, leziosa, a riferire qualche pettegolezzo su una conoscenza in comune o commentare fatti di vita parigina.
C’è qualcosa di anomalo nel suo comportamento di questi giorni, troppa tensione, troppa attenzione. Forse si è distratta di nuovo e, colta dal senso di colpa, cerca di colmare il vuoto lasciato dalle sue passioni estemporanee con un maggior grado di interesse nei suoi confronti.
In fondo, Maude è una donna così. Fredda ma intensa, acuta e spigolosa, terribilmente sofisticata e incoercibilmente libera. Una donna tendenzialmente infedele, per nulla vocata alla famiglia, ma intelligente e colta, molto curiosa, e costantemente circondata di cose belle.
Distratto, Andrès risponde, quasi per costrizione, al sms: “Appena atterrato. Mi aspetta una lunga giornata. Spero tu abbia dormito bene”.
Manca di dolcezza, questo messaggio, ma è intenzionale. Il vero senso della frase è: cosa hai combinato stanotte, che sei già sveglia, chérie? Ma lui non ha alcun bisogno di chiederlo, perché forse lo sa già, e forse non ci vuole pensare.
A Deàk Ferenc Tèr Andrès imbraccia lo borsa del portatile e trascina il trolley giù dal treno. Pochi passi fuori dalla frenetica piazza di Pest e la grande entrata del palazzo della società lo accoglie, con le receptionist slavate in blu e l’aria condizionata troppo alta.