***listening to “Yo soy Maria“***
L’aereo trema, Sofia dorme. Ha scelto il posto accanto al finestrino, inforcato gli occhiali, aperto la guida e in pochi minuti è clamorosamente crollata dopo la levataccia.
Alice, invece, non dorme. Addosso ha ancora la voglia, quasi la nostalgia, di quella sigaretta che non ha fumato. Addosso, più dentro, un vago senso di inquietudine. Una specie di fastidio interiore, un leggero tremolio dell’anima. Una sensazione difficile da guardare, impossibile da mandar via. Che fare? Spallucce, per scrollarsi di dosso il torpore malinconico e la sensazione di essere dove non vorrebbe. Per distrarsi, si infila le cuffiette nell’orecchio e fa partire una sequenza casuale di brani. Appoggia sulle ginocchia il libro che sta leggendo, la testa sullo schienale, chiude gli occhi e si abbandona alla musica, sperando di addormentarsi.
C’è poco da fare, di dormire non se ne parla proprio. Di stare ferma, nemmeno. Nel player l’album di Di Meola che suona Piazzolla, chitarra e milonga, isterismo e malinconia. Con la testa appoggiata Alice ondeggia piano con le spalle sul suo asse, trasportata dal mix di bandoneon e corde, tiene gli occhi semichiusi, cerca di far passare quel dolore persistente alla base del collo che la attanaglia da giorni. O forse da mesi?
Mentre la sequenza casuale di brani propone un fedelissimo Libertango, Alice si guarda intorno per studiare la popolazione dello sgangherato volo su cui ha avuto la malaugurata idea di salire. Non c’è tanta gente. Una famigliola agitata e rumorosa lì davanti, una hostess annoiata e un po’ stinta, un paio di uomini d’affari o simile. Sul sedile accanto al suo, separato dal corridoio, un ragazzo alto e magro, coi riccioli neri e un’aria un po’ triste, apparentemente assorto nella lettura di un libro.
Il vicino malinconico alza lo sguardo, che lei subito distoglie per non farsi sorprendere a curiosare nel circondario. Forse che abbia soffermato lo sguardo su di lei? Impossibile. Alice scuote la testa e fa spallucce di nuovo, per togliersi di dosso la sensazione di essere osservata, e si concentra sulla musica, cercando di non pensare.
A tradimento suona ‘A media luz’ e la testa vola di colpo lontana, lontanissima. Indietro di istanti che sembrano secoli. I ricordi volano a quella vecchia scuola di ballo col pavimento di parquet chiaro, gli specchi e le sbarre, a quel maestro rasato e silenzioso, a quelle innumerevoli serate passate a provare la camminata. Perché il tango, prima di tutto, è una camminata, come diceva il maestro, appunto. Dentro la melodia, la voce intensa e romantica di Gardel che fischietta l’intensità di un amore grande e appassionato, nei ricordi invece, Luca. Luca minuto, magro, delicato, intelligente. Luca che a scuola di tango ci è venuto tirato per i capelli, Luca che adesso, il tango, lo balla esibendosi agli show cases con altre ballerine, bionde per giunta.
Luca.
Un groppo in gola.
Poi un conato di vomito.
Poi una botta di nostalgia.
Poi un piccolo, inutile, senso di vuoto.
Poi, il silenzio, nonostante la musica. Una specie di bolla nella testa.
Una cosa che non è ancora andata a posto.
Poi il pezzo che cambia e la voce possente e urlata di Milva, le parole intense e commoventi di un’operetta tutta in musica di tango, i ricordi che si affastellano furiosi e confusi …
Luca.
Luca sottile, composto, leggero, soave.
Luca profondo, introverso, silenzioso, proteso.
Luca, privo della tristezza e dell’intensità di un ballerino, che però stava dritto e timido sulla pista pur di starle vicino ed assecondare tutti i suoi isterici capricci, alla ricerca della fusis perduta di Alice.
La voce di Milva prorompe, furiosa e travolgente, dentro la testa, fino alla bocca dello stomaco, sul climax ascendente intonato dal violino: “Siempre me digo “Dale María!” cuando un misterio me viene tremando en la voz! Y canto un tango que nadie jamás cantó, y sueño un sueño que nadie jamás soñó, porque el mañana es hoy con el ayer después, che!”
Alice non sa se quello che sale è davvero un conato di vomito, o piuttosto un singulto di pianto.
Dagli occhi sgorga, incontrollata, una lacrima grossa. Poi due. Lei se la asciuga frettolosa, inavvertitamente, con la lingua, e poi passando i polpastrelli sotto la lente sinistra degli occhiali, scuote la testa, cerca di capire.
Non è tristezza, no. Non è nostalgia. È l’inutile, insopportabile, eclatante peso di una scelta sbagliata, è l’urto improvviso della risacca salata sull’anima, quando le speranze riposte e bruciate premono forte contro il petto per uscire, quando il peso dei ricordi si fa insopportabile.
La domanda che vaga, solitaria, nella testa è: perché?
*Come ho potuto stare sette anni assieme ad un perfetto sconosciuto, spaventosamente esatto, passivamente aggressivo, sterilmente ed inutilmente attento ad ogni mia microscopica esigenza, senza minimamente capire che avevo solo bisogno di essere amata? Come posso adesso stare in questa semi relazione assurda, con un quarantenne strampalato e instabile, un passato torbido e un futuro incerto e nebbioso?*
Luca, Francesco. Luca, Francesco.
E il gran casino di cercare di spiegare a qualcuno questa storia. Impossibile, da spiegare, questa storia. Impossibile.
Un movimento nell’aria distrae Alice e le fa girare la testa, seccata. Alla sua destra il malincovicino con gli occhi azzurri la guarda proteso e le porge qualcosa. Alice fatica a mettere a fuoco, perplessa, e poi capisce che nella mano del suo interlocutore muto c’è un pacchetto di fazzoletti. Corruga la fronte, tra l’imbarazzo e il fastidio, e scuote la destra in segno di diniego, facendo finta di niente. Lui ritira la mano e socchiude gli occhi in uno sguardo indagatore, allarga le braccia come a dire: “Se li vuoi, sono qui”, e rimette l’attenzione sul libro, gradendo poco la reazione di lei.
Alice deglutisce, dubbiosa, e si mette a guardarsi timida le unghie delle mani, tanto per impegnare gli occhi e distogliere lo sguardo dall’importuno passeggero curioso.
Sofia si muove piano sul sedile. La hostess annuncia la prossimità dell’atterraggio. Alice raccoglie le sue cose e le ripone nella borsa. Insieme, raccoglie i ricordi e li rimette in quella parte del cervello in cui ha accuratamente segregato le cose che non capisce. Stringe la cintura di sicurezza, mette le mani sui braccioli e respira, in attesa dell’atterraggio.
Ciao Alice (o forse no),
sono Antonio: un orgoglioso ferrarese ed appassionato motociclista.
Da un retweet del Bluenote al “tuo” tango passando per il viaggio a Budapest.
Ho letto con piacere, curiosità e anche un filo di emulazione.
Aspetterò gli altri capitoli.
Grazie, buona notte.