Per quanto cerchino di essere rappresentativi, i dossier sono sempre dossier: non possono in alcun modo rappresentare la realtà. Nemmeno i CV sono esaustivi, palesemente, della variegata e talora desolante umanità cui ci si può trovare davanti. Andrès guarda il suo nuovo gruppo, curioso e perplesso, come sempre.
Dieci giovani rampanti del marketing, brillantemente laureati, cuccioli di squalo in un mondo in cui tutti gli altri pesci sono mante, molto più cattivi e affamati di loro, convinti di avere il mondo in mano. Ragazzi in giacca e cravatta, sicuri, offensivi; due giovani donne in tailleur, vagamente a disagio nelle gonne troppo strette e lunghe, attrezzate per il combattimento ancor prima di aver cominciato.
Andrès entra nell’acquario senza esitazione: camicia e pantaloni, passo leggero, braccia conserte, sguardo tagliente.
I ragazzi lo osservano, incuriositi: perché non è in divisa da lavoro?
Perché quello è l’abito di Andrès: lui deve attivarli, non spegnerli.
Tende la mano in segno di saluto, spegne la lavagna luminosa, non accenna ad accendere il portatile. Si appoggia al tavolo ovale, li guarda fissi negli occhi, uno per uno, per un attimo. Poi dice: “Buongiorno a tutti. Mi chiamo Andrès e sono il vostro coach. Non serve che mi diciate i vostri nomi, perché li so già, ma confido che troviate in pochi minuti un modo per conoscerli tra voi. Presentatevi. Abbiamo bisogno di parole vive, oggi.”
Fa sempre effetto, vederlo lavorare. Le ragazze delle risorse umane, dall’altra parte del vetro, lo guardano con fare estatico, per quel suo approccio spiazzante, per quel sorriso grande sul viso serio, per quel modo impressionante che ha di mettere tutti a proprio agio, in pochi secondi.
L’incontro dura quattro ore, nessuna pausa, nessuna sigaretta, nessuna fuga alla toilette. Per questi brillanti giovani sempre pronti a prendere appunti e scrivere qualcosa di intelligente, oggi pomeriggio c’è solo un compito: “Alzatevi in piedi, venite qui vicino alla lavagna e raccontate qualcosa che vi appassiona. Ci interessa l’emozione, non la parola. Ci interessa la vita, non la tecnica. Ci interessa che quando usciamo da qui ciascuno di voi sappia qualcosa di particolare dell’altro. E poi, preparatene un altro, per lunedì, scegliendo le parole con cura stavolta, senza improvvisazione, utilizzando tutti gli strumenti egli aggettivi che senza dubbio avete.
Lasciatevi stupefatti.”
Andrès passa il suo pomeriggio in silenzio ad osservare i suoi allievi. Non prende appunti, non serve a molto e distrarrebbe i ragazzi dal loro compito. Scriverà dopo, le poche parole che gli servono per fissare nella memoria i punti cardine del gruppo e di ogni singolo individuo.
Quattro ore di incontro, quella successiva a fissare gli aspetti salienti sul monitor, per non dimenticare nulla. Una parola per evocare altri dieci ganci nella memoria e poter seguire ciascuno di questi ragazzi come se fosse l’unico. Un compito per tutti, per ritrovarli lunedì mattina assieme ed assegnare a ciascuno il suo, per le prossime due settimane.
Estenuato, Andrès si stende sulla sedia. Che fatica ricominciare, ogni volta, daccapo. E che bello, ricominciare, ogni volta, daccapo. Con un gruppo nuovo. Sospira. Stende la gambe sotto il tavolo e guarda l’ora. Le sette. Giusto il tempo di prendere un taxi e andare al Four Seasons.
Prende in mano il cellulare e digita un messaggio veloce alla volta di Luka, il suo amico delle trasferte ungheresi: “Mezz’ora e sono lì.”
Si fa chiamare un taxi dalla reception e scende al piano terra.
Puntuale come la morte, alle sette e dieci, la telefonata di Maude.
“Mon ami, come stai?”
“Stanco, chérie … Ieri notte ho dormito poco e il volo è stato davvero pessimo.”
“Mi dispiace, caro … Posso fare qualcosa per alleviarti la stanchezza?”
“Poco, essendo così lontana.”
“Esci con Lucà stasera?”
Un sospiro vagamente esasperato … imparerà mai a dire i nomi?
“Sì, certo, come ogni buon venerdì a Budapest, l’aperitivo al Four Seasons è un obbligo. Dovresti unirti a noi una volta o l’altra.”
“Oh, mon ami, lo sai che io maltollero quelle noiose capitali dell’est. Ci sono così tante bionde e poca vita …”
“Starai mica facendo la gelosa, adesso?”
“No, mio caro, mi piace solo stuzzicare la tua fantasia. Stasera vengono a cena un po’ di amici, il foie gras non è abbastanza e non so se hanno terminato i preparativi, di là. Ti ho fatto una telefonata veloce e non ho grandi novità … Posso richiamarti più tardi?”
“Chérie, tra breve non avrai più un minuto per pensare a me. Vai tranquilla, io salgo in taxi e raggiungo Luka all’aperitivo. Ci sentiamo domani, passa una buona serata.”
“Anche tu, mon ami”.
Clic.
Che noia, certe telefonate stanche. Che noia, la voce di Maude, quasi tediata dal suo stesso essere viva. Ma lei è una così, da prendere quando c’è e quando capita.
Come la prima sera che l’ha vista.
Planato da pochi mesi a Parigi, dopo un lungo periodo furioso in un appartamento spagnolo a Barcellona, una sera ad una festa, tre anni fa, si sono incontrati. Maude avvenente e stupenda, nel suo abito morbido, con un sorriso smagliante e uno sguardo beffardo, l’aveva sedotto in pochi minuti. Maliarda e distante, sulle sue scarpe di Loubutin, si era avvicinata cordialmente e l’aveva trascinato a bere qualcosa, da brava regina della festa. E con le sue parole avvolgenti e quell’accento arrotato, terribilmente parigino, l’aveva incantato di parole e bicchieri di champagne.
Maude che era una donna come sua madre, bellissima ed elegante, che amava le mostre, il buon vino, il foie gras, leggere nella notte, discutere di arte e di pittura, circondarsi di cose belle e preziose. Maude che gli aveva scritto, il giorno dopo averlo conosciuto, per invitarlo ad una cena a casa di amici, “per avere un cavaliere alla sua altezza”. Aveva sei anni più di lui ed era gloriosamente divorziata, splendidamente sensuale, terribilmente poco impegnativa. Lui, reduce dalla passione furibonda ed autolesionista con Anja, la conturbante nuotatrice con cui aveva trascorso diversi d’anni d’amore e atrocità in Spagna, non chiedeva meglio di una relazione destrutturata, con una donna bellissima, terribilmente esigente, decisamente poco presente. Avevano cominciato ad uscire senza impegno, poi con più convinzione, poi … Poi, senza sapere perché, Andrès si era trovato a vivere a casa di lei, senza mai lasciare stabilmente il suo appartamento, dove, tutt’ora, ogni tanto va a dormire quando è incazzato.
Tre anni insieme, senza passato e senza futuro. Senza noia e senza gioia. Una vita sociale intensa e una esistenza emotivamente compassata. Grigio fumo di Londra ma a Parigi, ecco.
Maude è una che non ride, sorride. Piega la testa leggermente e sgrana con grazia affettata il suo rossetto Chanel. Maude è una così, una perfetta compagna del niente, impossibile da amare, impossibile da odiare. Insomma, una perfetta compagna e basta.
Perso nei suoi pensieri, Andrès paga distrattamente il taxi e sale le scale ripide dell’ingresso del Four Season, cercando con lo sguardo Luka vicino all’ingresso.
Nessuna traccia dell’amico.
Guarda l’orologio e nota che sono le sette e quaranta. Luka sarà già dentro.
E infatti eccolo lì, spavaldamente appoggiato al bancone con un bicchiere in mano. Spalle larghe, occhiali neri, giacca grigia sulla maglietta girocollo.
Si sorridono, si stringono vigorosamente la mano, Andrès prende un bicchiere di vino rosso e i due si mettono a confabulare, stanchi ma adrenalinici, della giornata di lavoro.
Sono amici da anni, Luka e Andrès. Lavorano per la stessa società e si sono conosciuti così, tempo addietro, nel primo viaggio in trasferta ungherese di Andrès. Da anni, ormai, passano i venerdì a criticare gli avventori, conoscere gente e far diventare sceme le bionde del Four Seasons e poi vanno in milonga la domenica sera. Diversi è vero, ma con un paio di passioni salienti in comune.
Luka è meno posato e rigoroso di Andrès, ed ha una incontenibile e sfrenata passione per le donne, leone ascendente bilancia, consulente delle risorse umane nella valutazione del potenziale, ungherese di origine, latino di aspirazione.
Il venerdì sera inizia sempre al Four Seasons, dove l’aperitivo è ben organizzato e ci sono tante e diverse persone da scrutare. Non escono per rimorchiare, non ne hanno alcun bisogno. Andrès ha la sua compagna a Parigi, quella specie di relazione stabile che dura da anni, con una donna dura e intelligente, spigolosa, concreta e molto bella, una francese doc a là French Kiss. Luka ha una giovanissima fidanzata autoctona, Karla, che si sta specializzando alla London School of Economics e torna a casa una volta al mese, è un donnaiolo sfegatato cui le occasioni cadono addosso senza bisogno di andarle a rincorrere.
Insieme, sono i tipi che escono e vanno a bere qualcosa, che poi diventa sempre qualcosa di più ma difficilmente di troppo, incontrano gente, dicono cose. Luka socializza anche coi sassi, e conosce decine di soggetti diversi, Andrès dice quel che serve, sorride poco e studia curioso i fenomeni sociologici cui assiste. È uno che guarda la gente e cerca di immaginarsi le loro storie.
Stasera al Four Seasons c’è più gente del solito, e dopo due ore di chiacchiere perdute con delle svenevoli ragazze, i due, vagamente annoiati, tornano al bancone per il quarto giro.
Ad un certo punto, di sfuggita, al bancone Andrès intercetta uno sguardo familiare, qualcuno di già visto. Chi è?
*Ah, la moretta dell’aereo. Che ci fa qui?*
La tigre in gabbia è scomodamente arrampicata sullo sgabello del bar, palesemente a disagio, con la sua amica Monnalisa poco distante, che ha appena portato due bicchieri al tavolino. Andrès ne incrocia lo sguardo e lei abbassa gli occhi furtiva.
Colto da una curiosità profonda e improvvisa rivolge un cenno di intesa a Luka e si avvicina al bancone.