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Pioviggina, nel ghetto

La sveglia suona alle otto. Alice si stropiccia gli occhi, si stira lunga nel grande letto vuoto e si guarda intorno.

*Dove sono? Ah già, in Ungheria. Che razza di ora è? Le otto. Oddio, la riunione inizia tra un’ora, devo mettermi in pista. Voglio un caffè.*

Già, peccato che la camera d’albergo, per imperscrutabili ragioni, non abbia la colazione compresa.

Doccia bollente, come sempre. Portatile acceso, musica che suona a tutto volume giusto per liberare un po’ di sana energia positiva. Il telefono della stanza suona fastidiosamente. È Sofia: “Buongiorno, volevo sapere com’eri messa.”

“Buongiorno a te, sono sveglia da un quarto d’ora ma sono quasi pronta. Usciamo che ho una fame boia? A proposito: ma come diavolo ti è venuto in mente ieri sera di dire a quei due che avevamo già cenato? Vuoi farmi morire di fame?”

Sofia ride, di gusto. “No, è che non sapevo come fare a non accettare altri inviti, non pensavo che finisse così. Comunque, anche io sono pronta, passami a prendere, ho trovato il posto ideale dove fare colazione.”

*Passami a prendere? Ma se sei alla porta accanto?*

Dall’Art Hotel a Coffeheaven sono trecento metri a piedi e due fermate di metropolitana. Una specie di Starbucks però non Starbucks, che a Budapest non c’era, in quel luglio. Divani bianco panna e pareti arancione, buona musica allegra di sottofondo, colazione con un bicchierone di caffè nero americano, rigorosamente amaro, e un muffin ai mirtilli. Alice ha studiato approfonditamente la guida e propone, per la giornata, un giro ragionato di Pest, con tanto di pellegrinaggio nella via dello shopping.

Sofia ride “Oh, facciamo quello che riusciamo. La festa stasera comincia sul tardi, dovremmo fare a tempo anche a riposarci un’oretta.”

Un tintinnare sul vetro, acuto, sicuro. È il telefono di Alice che si fa sentire.

“Buongiorno Capo. Cominciamo tra 10 minuti. Qui è tutto tranquillo. Non pensare a noi. Ci hai insegnato quello che ci serve per fare un buon lavoro. Ti chiamiamo quando abbiamo finito.”

“Piove.” Sofia la riporta alla realtà, vagamente contrita per l’eccessiva attenzione che l’amica presta al telefono.

“Cazzo.”

“Certo che tu sei sempre espressiva, eh? Ho l’ombrello se vuoi.”

“Lo sai che li odio, gli ombrelli.”

“Metto il cappello, capito. Allora andiamo? Direzione?”

Alice sfodera il sorriso e la guida, come Fazio col pizzino coi dati anagrafici. Sofia la stronca subito: “Ali, mi fido di te. Quello che mi hai detto ieri in aereo mi basta e mi avanza, metti via quella guida e andiamo.”

Vagamente frustrata dal dialogo, Alice inforca la porta, con la cartina in mano per non sbagliare strada.

La prima tappa, ovviamente, è fuori standard: Alice infatti ha la fissa dei ghetti ebraici e non c’è città che visiti in cui (se la storia ne ha voluto la disgraziata presenza) non lo vada ad ispezionare a fondo. Come perdersi quello di Budapest?

La grande Sinagoga si staglia colorata e magica contro il cielo grigio, come a far risaltare ancora di più l’oro e il rosso delle guglie nell’aria. Il museo ebraico all’interno deve essere impressionante, ma è chiuso visto che i due geni del turismo d’assalto hanno deliberato di visitare un ghetto ebraico di sabato. Non che Sofia ne sia affranta: piove, fa freddino, e lei ha voglia di camminare. Alice invece si allontana mesta, con lo sguardo rivolto alle punte dei piedi e la sensazione di non riuscire mai ad afferrare quello che vuole. Come se i confini vaghi della sua persona si trasferissero in una duttilità eccessiva della sua capacità di desiderare, quindi volere, quindi prendere.

Desiderare, volere, prendere. *Oddio, di nuovo*. Di nuovo, quel vago senso di mal di stomaco, la vista che sembra appannarsi, l’ambiente circostante nitidissimo e il punto di osservazione sfocato. Alice scuote la testa, forte, per allontanare il pensiero bastardo, e ricomincia a camminare, ostentando sicurezza.

A pochi metri da lì, un po’ orientandosi e un po’ perdendosi, Alice e Sofia si trovano in un quartiere povero con un retrogusto vagamente comunista, pieno di cartacce per strada, vetrine misere, marciapiedi deserti e un vento antipatico che spazza le vie e solletica capelli e cappelli.

Alice si ferma a guardarsi attorno, perplessa. Sofia, che si è impossessata della carta, la gira. Prima a destra, poi a sinistra.

La gira, la guarda. La rigira, come un volante. La chiude. La riapre. La gira. Sbuffa.

*Dove diavolo siamo finite?* Siccome della carta non si capisce molto, decidono di affidarsi al proverbiale senso dell’orientamento di Alice che, delle due, è quella che più somiglia ad un uomo.

Le donne, si sa, scarseggiano in orientamento toografico. Meglio il decisionismo esistenziale.

In una decina di minuti, seguendo la posizione ipotetica del Danubio più che il Nord, si ritrovano davanti alla sede di Magyar Radio, nota anche come Radio Budapest, il più famoso broadcast ungherese, e da lì riescono a tornare a Belváros, il centro di Pest.

La pioggerellina prosegue, incessante, a disturbare l’umore e la passeggiata, rendendo tutto più faticoso, o forse solo più riflessivo ed intimista.

 

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