C’è un minimarket all’angolo di un isolato, o almeno sembra qualcosa di simile.
Alice infila timidamente la testa dentro la porta scorrevole di vetro e si chiede se per caso non si trovi in uno di quei vecchi spacci di Venezia dove vendono di tutto, dal lucido per le scarpe al cartone del latte, passando per il Dixan.
Nel bugigattolo c’è uno strano silenzio, una signora anziana col fazzoletto in testa che valuta detersivi, una cassiera silenziosa e il bancone del fresco accanto alla carta igienica. Marche mai viste e parole in magiaro sui prodotti aumentano il senso di smarrimento che la avvolge ma lei, imperterrita e soprattutto assetata, si aggira tra gli scaffali cercando qualcosa da tracannare entro breve.
Alla fine, dopo una colluttazione con la cassiera che non parla inglese e si spazientisce mentre la cliente straniera conta le monetine di fiorini ungheresi, Alice esce dal negozio con un sacchetto nella mano: due bottiglie di acqua naturale, un pacco di crackers integrali, un flaconcino di miele. Niente frutta. Amen.
Arrivata in camera, dopo aver spudoratamente ignorato il concierge che la guarda interrogativo mentre si atteggia ad atleta consumata nell’attraversare la hall, si sbatte sulla poltrona rossa, divora i crackers col miele e si scola la bottiglia d’acqua.
Mentre fa colazione, guarda distratta fuori dalla finestra il cortile interno dell’albergo e cerca di concentrarsi su qualcosa che disturba la tranquillità di una domenica mattina in Ungheria senza nessun impegno. C’è una zanzara fastidiosa, nella testa, anche dopo l’acqua fredda sugli occhi, anche dopo la corsa, anche dopo la cassiera acida e un litro e mezzo di acqua.
C’è qualcosa che la tedia.
*Ci vorrebbe un caffè. Scendo al bar.*
Poi, di colpo, si concentra sul suo corpo: come lo avesse dimenticato altrove, non ha realizzato che è ancora vestita da corsa, che il sudore le si è asciugato addosso, che la maglietta è umida e le calze probabilmente puzzano ineffabilmente, chiuse dentro le scarpe bollenti.
Con aria di sufficienza verso se stessa si alza dalla poltrona rossa, lancia le scarpe senza slacciarle, appallottola i vestiti nel bidet e si infila nella doccia bollente. Come se fosse normale, dimenticarsi di essere corpo, scordarsi di essere madida e appiccicosa e poi buttarsi sotto un getto d’acqua ustionante e rimanerci venti minuti.
Sotto la doccia qualche ricordo emerge, pian piano.
C’era buona musica, c’era tanto fumo, c’erano almeno tre sigarette che si è fumata con Sissi, fregandosene allegramente del fatto che ha smesso … C’era un sacco di gente che rideva e parlava in tante lingue, c’era una bottiglia di Rhum Mocambo invecchiato 20 anni sul bancone del bar … C’era quel tipo, quell’argentino maledetto che diceva solo cose interessanti e sorrideva sempre …
Ecco, quello è un fatto che sorprende e disturba: sorrideva sempre. Non di un sorriso stupido, non di un sorriso ironico: sorrideva. Come un bambino con lo sguardo pieno di stupore incuriosito.
Quell’uomo alto, con lo sguardo indagatore e le mani grandi, quell’uomo con la voce accattivante e l’espressione viva, profonda, che la interpellava con gli occhi, le faceva domande pregnanti, la guardava curioso, o forse, cupido.
Quell’uomo misterioso il cui abbraccio forte e delicato, appena accennato sulla pista da ballo, l’aveva fatta tremare. O forse vibrare?
Alice esce dalla doccia e si avvolge nella spugna bianca dell’asciugamano. Poi, anche se i capelli sono cortissimi, se ne avvolge uno sulla testa. Un velo di crema di idratante ed uno di deodorante, due gocce di profumo e torna a sprofondare nella poltrona.
Di sottofondo il pianoforte di Ludovico Einaudi, turbato, molesto, inquieto, vivo.
Alice si strofina l’asciugamano sui capelli, per asciugarli ancora un po’, si alza e va a pettinarsi in bagno, per sentirsi più in ordine, si riassetta l’asciugamano e torna in poltrona a leggere il suo libro pensosa.
Il telefono batte di nuovo sul vetro con un sms. È Sofia: “Ti sei svegliata? Sono in giro con Cami, che ne dici di vederci alle terme nel tardo pomeriggio?”
Risponde, disturbata dalla distrazione: “Sono sveglia, sono andata a correre, sto leggendo. Ci vediamo stasera, ok.”
Basta poco a sentire le meteoropatia, anche se fuori il sole batte caldo sul Danubio.
Mentre annega nel confronto tra una indefinibile se stessa e le donne del romanzo che legge,, Alice vede il fumetto della gmail colorarsi di rosso a segnalare l’arrivo di una mail. Distrattamente clicca sull’iconcina e lancia l’apertura della pagina della posta.
Una mail.
Un mittente: Samantha Andreoli.
*Oddio. Samantha? Samantha con l’acca? Eh?
Sarà spamming. Di nuovo*
E invece no, non è spamming. È proprio lei. L’inutile acca. La proverbiale, insopportabile, superflua ex ragazza di Francesco.
*Cosa vuole?*
Alice aguzza gli occhi, stringe lo stomaco, smette di respirare e comincia a leggere, tutto d’un fiato.
Ci sono troppe parole in questa mail. Troppe parole e nessun significato dominante. Solo affermazioni sparse. Ci sono scritte parole a caso, come “ciao, sono la sua ex” e “ so chi sei tu ma non lo so, davvero”.
Dice che si sono incontrati e che non si sono riconosciuti. Dice che lei l’ha visto e che ha capito tutto. O forse non ha capito niente. C’è una domanda, che serpeggia inespressa nel periodare interrotto e fumoso di una troppo giovane e troppo ingenua per aver capito cosa la vita le ha messo davanti. Da qualche parte, Samantha con l’acca vorrebbe chiedere: chi sei? Sei tu che me l’hai portato via? Mi dici la verità? Mi aiuti a smettere di soffrire?
*Come posso aiutarti, piccola tu, se neanche io so da dove cominciare a credere?*