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In-diferente

Dieci di mattina, un sole brillante fuori dalle finestre del palazzo di vetro, dieci ragazzi seduti intorno al tavolo ovale, nell’acquario.

Andrès varca la soglia dell’ufficio con uno strano sorriso smagliante sul viso, camicia azzurra e jeans, attraversa con passi lunghi e leggeri la reception, facendo un cenno di saluto con la testa alle persone che passano, ed entra nella stanza. Si avvicina al tavolino col videoproiettore, accende il portatile e lo collega all’impianto audiovisivo, poi si appoggia con la schiena contro la lavagna, viso rivolto al tavolo, sorride e saluta: “Buongiorno, ragazzi. Passato un buon weekend?”

La sessione inizia così, con un giro di tavolo inusitato, in cui ciascuno racconta in due parole su come ha trascorso il fine settimana. Un paio di risate, qualche timidezza che si scioglie, e l’atmosfera è rilassata e calda come la giornata fuori dalle finestre.

Ciascuno ha portato il suo compito, ciascuno è pronto a raccontare.

Andrès si siede al tavolo, in mezzo a loro, e li fa alzare uno per uno, con calma, in piedi, a declamare la loro storia, con o senza il supporto delle immagini, ma prima ricorda il tema, per rendere evidente il senso delle cose: “Raccontate qualcosa che vi appassiona, con il massimo dell’energia e della magia che sapete.”

Ci hanno provato tutti, chi più chi meno. C’è chi è riuscito meglio e chi peggio. La prima volta, in fondo, è sempre la più difficile.

Andrès li ascolta in silenzio, asserisce soddisfatto qua e là, non prende appunti e guarda fisso negli occhi chi parla. Non interrompe, non corregge.

Alla fine dei dieci speech, dieci minuti per il caffè e la sigaretta.

Al rientro dalla pausa è mezzogiorno passato, il sole batte alto fuori dai vetri, i ragazzi sono curiosi di sapere cosa succederà adesso.

Andrès, seduto al tavolo ovale, riassume i punti salienti della mattinata, rilevando i punti di forza e le debolezze di ciascun lavoro, critica in maniera costruttiva senza far sentire nessuno in difetto. Poi lascia il compito di perfezionare l’opera.

Si alza in piedi, appoggia le mani sulla sedia e guarda negli occhi i suoi allievi, uno dopo l’altro.

Tace per un attimo.

“Avrei voluto darvi un compito nuovo, ma in questi due giorni ho fatto molta fatica a pensare e stamattina mi sono svegliato con la convinzione che per riuscire ad andare avanti bisogna saper stare fermi sul punto.

Hic et nunc.

Per questo, quello che vi chiedo di fare non è una cosa nuova. Vi chiedo di concentrarvi ancora e ancora su una cosa che vi appassiona, la stessa o un’altra, e di usare tutti, ma proprio tutti i mezzi che avete per lasciarci stupefatti. Non vi servono solo le parole, dovete usare il vostro intero sistema percettivo per trasmettere l’onda dell’emozione all’interlocutore.

Non vi dirò né di cosa parlare, né con quali mezzi.

Vi dirò solo di lasciar passare il messaggio per tutti i canali che conoscete.”

Andrès si sposta dalla sedia, cammina per la stanza, si avvicina al portatile e traffica col mouse.

“Prima di lasciarvi andare, voglio fare un esperimento. Una cosa rischiosa, che non ho mai fatto prima.

Per darvi un’idea di quello che mi aspetto da voi, proverò io a raccontare una cosa che mi appassiona. Abbiate l’accortezza di tenere conto che sto improvvisando.”

 

L’acquario si riempie improvvisamente di suoni: dalle casse dell’impianto audio parte sommesso il ritmo torbido di Diferente, dei Gotan Project. Di nuovo, come venerdì, nei piedi, di notte. Ritmo, tempo, ritmo, tempo, pianoforte. Pausa. Pianoforte. Pausa. Bandonèon. Pianoforte. Ritmo, tempo, pianoforte, bandonèon. Pausa.

Poi è il volume che si alza, e la voce sottile della cantante.

Poi, di nuovo, solo il bandonèon.

“Ballo tango argentino da quando avevo quindici anni. Me l’ha insegnato mia madre, col suo sangue da artista e la sua anima di polvere di stelle. Me l’ha insegnato con tutta la passione vivida di cui è stata capace e mi ha regalato l’unico vero grande amore della mia vita: la notte in milonga.

Ballo questa musica perché è viva e intensa, perché è travolgente, straziata, a tratti addirittura feroce.

Ho pensato, per anni, che la vita fosse grigia e che l’emozione passasse solo da lì, dal contatto dei piedi col pavimento, dal corpo teso sulla musica, dall’adrenalina di tenere sempre una donna nuova tra le braccia. Saranno state Londra, Milano e Parigi a farmi credere che il cielo non fosse poi tanto blu, così composte, educate e raffinate, dopo una dozzina d’anni furiosi a Barcellona. Negli ultimi tre anni ho smesso di respirare con il petto pieno d’aria come un gatto steso al sole. Ho smesso di cercare il mare oltre i miei occhi, guardavo il cielo e non ci vedevo niente dentro.

Ho solo ballato, tanto, con centinaia di dame diverse. E mai trovato la mia ballerina perfetta.

Ballavo il tango e mi sentivo vivo. Malinconico, forse, ma vivo.

In questi due giorni ho imparato che non è così. Non è tutto grigio.

Ho camminato molto, respirato la pioggia e annusato il sole, conosciuto una donna con cui ho danzato come mai prima d’ora e finalmente capito cosa intendeva dire mia madre, quando mi spiegava il suo senso del ballo, ma soprattutto il suo senso del sangue argentino. Diceva sempre che ‘il tango es como la vida’ perché lo puoi ballare come vuoi: in maniera elegante, sensuale, triste. Perché lo puoi sentire, assaporare, amare furiosamente. Nel tango puoi lasciare andare tutto quello che sei, marcando la direzione sulla ronda alla tua dama, abbandonata nel tuo abbraccio.

La vita è difficile, come questo tango quasi elettrico. È piena di spigoli, di anse, di sospiri. Di momenti intensi, di dolori, di emozione. Spegnersi, fermarsi, arrendersi è come stare in questa stanza, con questa musica, e non desiderare di ballare.

Con Alice, la stregatta dagli occhi sottili con cui ho danzato stanotte, ho compreso quel che voleva insegnarmi mia madre: che vivere è stare alla ricerca spasmodica, appassionata, confusa e quasi isterica del senso della ronda, del proprio spazio perfetto in un metro quadro sul pavimento di una milonga affollata, è camminare non in linea, giammai in contro direzione, girare su se stessi o stare fermi sul posto.

Abbandonarsi al profumo di un altro. Fidarsi. Respirare forte, respirare piano.

Stanotte, nel tango, ho danzato in un raggio di sole, ho ritrovato il senso della pienezza della vita, della ricerca della luce, del godimento del brillio di un’emozione forte e puntuale. Che arriva e poi se ne va, ma che lascia una traccia profonda, dentro.

Stanotte, sulle note di musica come questa, ho capito che non voglio mai più essere in-diferente.

Emozionatevi, ragazzi, emozionatevi di fronte alla vita. Scegliete il tango, scegliete un’altra cosa: fate ciò che volete, ma fatelo.

Emozionatevi. Lasciate entrare il sole, cercate il mare nel cielo.

E allora sì, che vi lascerete davvero stupefatti.”

 

Il bandonèon prosegue, incessante, nella sua travolgente esibizione di sé.

Andrès si arrotola le maniche della camicia intorno ai gomiti, prende le borse e guarda quei ragazzi muti e intontiti.

 

“Ciao ragazzi, ci vediamo tra due settimane.”

Senza dire altro, alza la mano in cenno di saluto, gira i tacchi ed esce dalla stanza, dal corridoio, dalla reception e dal palazzo. Immerso in un raggio di sole caldissimo, cammina a passi lunghi sul marciapiede e sorride, come non faceva da secoli, o meglio, come non faceva da ieri notte, e prima di allora da secoli.

Nella testa, l’ultimo sms che ha ricevuto, direttamente da Ferihegy e verso l’altro capo del pianeta; nelle narici e sotto le dita il profumo frizzante e la pelle di seta della signorina raggio di sole; negli occhi la speranza luminosa di tornare a ‘casa’, quella vera, e ritrovare il suo sangue; nelle orecchie la voce melodiosa di Cristina Vilallonga e il ritmo invadente del pezzo che suonava poco fa, e venerdì, e tanti altri giorni, dei suoi trentasei anni:

“En el mundo habrá un lugar
para cada despertar
un jardín de pan y de poesía.

Porque puestos a soñar
fácil es imaginar
esta humanidad en harmonía.

Vibra mi mente al pensar
en la posibilidad
de encontrar un rumbo diferente.

Para abrir de par en par
los cuadernos del amor
del gauchaje y de toda la gente.

Qué bueno che, qué lindo es
reírnos como hermanos
Porqué esperar para cambiar
de murga y de compás.”

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