“Who’s gonna ride you wild horses”, dall’album Achtung Baby degli U2, è quella che Elisabetta definirebbe ‘la mazzata finale’: un po’ perché tira su dei ricordi bastardi, un po’ perché ha una melodia trascinante, un po’ perché delle volte le parole delle canzoni parlano della realtà e non è che si può tanto fare finta di niente.
La testa di Alice ondeggia tra la sottile preoccupazione di non essere pronta per la riunione del pomeriggio, di non riuscire a concentrarsi, il ricordo vivo e bruciante della nottata appena trascorsa, l’ansia per la situazione con Francesco e tutte le cose della vita che andrebbero cambiate.
“Hallelujah, heavens white rose, the doors you open, I just can’t close. Don’t turn around, don’t turn around again, don’t turn around, your gypsy heart, don’t turn around, don’t turn around again, don’t turn around, and don’t look back…”
La metropolitana arriva al capolinea della linea rossa. Bisogna risalire e prendere un autobus, per arrivare all’aeroporto. Alice butta un occhio all’orologio: sono le nove. È ancora in orario. Fermi alla stazione ci sono due autobus, il primo dei due già in moto. Lei sale, trova un posto a sedere in fondo, occupa il sedile alla sua sinistra con le borse e appoggia la testa sul finestrino.
Puntuale come l’addebito di un RID, lunedì mattina, ore nove e qualcosa, ecco l’sms di Francesco. “Ciao viaggiatrice solitaria, come stai? Ti sei divertita? Stai tornando? Io sono in coda in macchina che cerco di arrivare a Pavia. Oggi c’è una grossa installazione e vogliono che sia lì a controllare che vada tutto bene. Non dovrei fare tardi, ceniamo insieme? Ti bacio.”
Francesco. Sempre Francesco. Che sparisce tutto il fine settimana e mentre lei è via poi torna a farsi vivo, presente, e anche pieno di pretese, appena scatta l’orario di lavoro del lunedì mattina. Francesco egoista, Francesco insaziabile, Francesco gioviale, viziato, capriccioso, aitante, irascibile. Francesco: sensazionale, per certi versi. Peccato che non sia per lei.
Alice soffoca e ributta nello stomaco una bolla d’aria, digita veloce un messaggio di risposta più freddo del solito e schiaccia ‘invio’ prima di potersi pentire.
“Arrivo tra due ore ma sono impegnata al lavoro. Se alle sette ci vedo fuori, potrei anche esserci per cena. Mi aspetti?”
“Certo che ti aspetto, ma sei antipatica. È successo qualcosa?”
Quando è in coda nel traffico, risponde ad una velocità impressionante ai messaggi.
“No, ma sono di corsa e ho tante cose per la testa. Ti avviso quando atterro.”
“Ti aspetto, dulci. Non vedo l’ora di vederti e di sentirti raccontare. Fregatene di quella stupida mail che mi hai girato. Bacio, a stasera.”
*Ecco. Come al solito. Non vede l’ora di vedermi, e io sono una cretina.*
O forse no?
L’autobus si ferma. Ecco il terminal 1 sulla sinistra.
Sacca in spalla, Alice scende dall’autobus e si avvia al desk del check-in, per individuare il suo gate, accreditarsi sul volo e cercare di concentrarsi, almeno un’ora, sul lavoro del pomeriggio.
C’è qualcosa di strano, nella dimensione del viaggio. Qualcosa di affascinante e temibile, di rivoluzionario ed ordinario, qualcosa di sottile ed invisibile eppure così ovvio da essere sulla bocca di tutti: difficilmente si torna uguali a come si è partiti. Saranno i visi che si incontrano o i kilometri percorsi, sarà l’aria, il cibo, il digiuno o la lingua straniera. Le contaminazioni sono tante, nel viaggio, e lasciano sul viso di chi torna le rughe di un’esperienza nuova e le ombre delle cose passate.
C’è qualcosa di strano, in Alice, stamani.
Una pienezza conscia, un mezzo sorriso affabile, la strana certezza tonda di essere quello che è, né più, né meno.
Né più, né meno.
Davanti a lei, il tabellone delle partenze. Tutte le possibili partenze.
E dietro il tabellone, tutta la storia da scrivere.
Sul cellulare, tra le dita, le parole si scrivono senza esitazione e cariche di una lenta, solida, emozione: “Andrès, mi amor, ricorderò di un tango a Budapest e poi, come i baci di Catullo, ne ballerò altri cento, e poi mille, e poi ancora cento, a Buenos Aires …”