*** su Resurreción del Ángel ***
Nove e mezza di un noioso sabato di pioggia, solito albergo, solito fastidioso mal di schiena, solito appetito svogliato di uno che si è svegliato più tardi del solito. Solo la vista è diversa, fuori dalla finestra della camera.
*Budapest. Già.*
Andrès si alza infastidito dal letto, fa qualche passo, butta uno sguardo fuori a scoprire il marrone agitato del Danubio e la punta di Margit-Sgizet, poi si siede sulla scrivania e compone distrattamente il numero del servizio in camera. Un caffè (espresso e amaro) e una brioche al cioccolato, una bottiglia d’acqua frizzante, grazie.
La giornata non è delle migliori, no. Il cielo è grigio, sembra esserci vento e scende qualche goccia di pioggia.
*Che palle*.
Voleva uscire, andare a piedi a Margit-Sziget, sedersi su una panchina e leggere, ma il clima non è abbastanza clemente, anche se è luglio. Si infila una maglietta, senza nemmeno lavarsi la faccia, si siede sulla poltrona e riapre la copertina del libro che aveva in borsa. Inconfondibile, la M di Maude spunta calda e orgogliosa sulla pagina bianca. Andrès la gira, e continua a leggere da dove ha interrotto in aereo.
La storia è cupa, confusa e difficile, una discesa nelle profondità della mente e nei cambiamenti delle relazioni fra le persone, in fondo, forse solo un sogno. O forse no. Comunque sia, che razza di brutto sogno.
*Maude e i suoi regali…*
Andrès appoggia il libro sulle gambe, reclina la testa sullo schienale della poltrona e visualizza. Che memoria fotografica.
Maude è contorta ed accattivante come le pagine di quel libro, con la pelle segnata da qualche ruga argutamente nascosta dal trucco sempre perfetto. I lunghi capelli castano chiaro raccolti in uno chignon studiatamente imperfetto, grandi occhi azzurri chiari come il mare d’inverno, labbra sottili e profilo greco. Maude è bella, intelligente, sofisticata, esigente e terribilmente capricciosa.
Una donna impossibile da raggiungere, sempre arroccata nella sua affettata perfezione, distaccata ma accesa. Quando, spesso, sorride, assottiglia gli occhi e distende vagamente le labbra, sempre pronta ad esibire i suoi orecchini di perle. È la capo redattrice di una rivista femminile, lavora poco, guadagna tanto, commenta anche di più. Parla sempre a proposito, in un Francese forbito e leggermente allusivo, ed è in grado di sostenere qualunque conversazione, sebbene inutile, senza mai essere tentata nemmeno da uno sbadiglio.
Pensando con un certo desiderio e nessuna nostalgia a lei, Andrès prende il cellulare e le manda un messaggio: “Bonjour chérie, qui piove ed io leggo le pagine che mi hai regalato. Ti bacio con ardore.”
Probabilmente, a quest’ora, pigra com’è, ancora dorme.
Andrès si rimette a leggere, in attesa che accada qualcosa, dopo aver acceso il player per far suonare Piazzolla. ‘Resurrección del Angel’ suona nella stanza e nella sua testa e lo riporta ad un passato lontano, all’età dell’oro in cui sua madre era ancora viva, a quei pomeriggi parigini passati a studiare il tango.
Argentina di origine, artista di natura, sua madre aveva il corpo sottile di una ballerina e lo spirito caldissimo delle donne del sud del mondo. Mancata due anni prima per un brutto male improvviso, che l’aveva travolta e consumata in pochi mesi, aveva lasciato in Andrès un fortissimo ricordo e una terribile, profonda, nostalgia, che ora si colma solo ballando.
Gliel’aveva insegnato fin da piccolo, il tango, crescendolo a pane e Piazzolla e Gardel. Gli aveva spiegato, coi passi e le parole e la musica malinconica e straziante, che il sangue di un uomo argentino passa attraverso il tango, che l’uomo argentino incontra attraverso il tango, e allo stesso modo ama.
All’inizio Andrès si era ritratto, disgustato da quella musica difficile, con una melodia incostante e un ritmo illeggibile, poi, lentamente, aveva scoperto la meraviglia di chiudere gli occhi ed abbandonarsi al bandonèon, al desiderio di abbracciare una sconosciuta e farla librare nell’aria e vibrare tra le braccia.
‘Puoi amare solo se sei in grado di camminare e abbracciare’, diceva sempre lei ‘e tu devi amare molto, figlio mio. Devi’.
Lui aveva amato molto, forse, almeno crede, amava ancora? *Mah*.
Gli aveva fatto ascoltare di tutto, dalla grande tradizione classica al Canyengue più ruvido, da Grace Jones che reinterpreta in ritmo latino alla nuova, stranissima, musica elettronica francese riscoperta dai musicisti che avevano fatto dell’anagramma la loro bandiera.
Gli aveva insegnato i passi e lo aveva trascinato in milonga, la sera tardi a provare e il sabato pomeriggio alla practica, per lasciarlo solo a bordo pista e ballare con tutti, ma proprio tutti i ballerini della sala, finché lui non aveva cominciato a danzare da sé, e invitare anche lei, come tutte le altre.
“Devi imparare a camminare con gli occhi semichiusi, eppure essere sempre vigile su quello che succede attorno, devi misurare lo spazio, la pista, valutare il movimento degli altri. Essere sempre accorto, scaltro, leggero. Come un gatto.
Abbracciare, poi.
Una sconosciuta.
Non importa che sia bella, non importa che sia alta. Importa che stia nel tuo abbraccio come una libellula nell’aria, aggraziatamente e fiduciosamente appoggiata. Che tu la sappia catturare in modo che lei si lasci andare.”
E quanti viaggi, a Buenos Aires, nelle milonghe, quelle vere, a ballare con lei, anche se era sua madre, e quanti pomeriggi a vedere e rivedere ‘Lezioni di tango’ e studiare il sorriso e la leggerezza di Pablito Veron.
Sua madre, la divina. La regina delle sale degli artisti e delle mostre contemporanee, la fiera e degna compagna solitaria di quel padre severo e sempre in viaggio che gli era toccato in sorte.
Con gli anni, Andrès è diventato un ballerino sapiente e malinconico, appassionato e silenzioso. Ha imparato a guardare ed ascoltare, ad assaggiare le persone con gli occhi e le braccia, a parlare poco e studiare molto. Ad amare, con lentezza e sapienza, il pavimento accarezzato con le suole, le ballerine timide e quelle spregiudicate, il buio della milonga e le bibite gassate a bordo pista, e non parte mai senza le scarpe da ballo in borsa, come ogni vero tanguero fa.
Il telefono squilla improvvisamente, disturbando il flusso ininterrotto di ricordi e melodia.
È Luka.
“Ciao, buongiorno. Ho avuto una idea: che ne dici di fare una cosa diversa e andare a Szentendre oggi pomeriggio? Prendiamo un treno e in mezz’ora siamo lì …”