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Birra, Goulasch e swing

L’aereo atterra a Ferihegy, aeroporto della capitale, terminal 1, quello vecchio. Prendere un taxi sarebbe troppo da snob, toglierebbe il senso dell’avventura e anche l’improvvisa consapevolezza che l’Ungheria non appartiene alla zona Euro e quindi la moneta che vale è il fiorino. Meno male che con la carta si preleva in valuta, in Europa.

Quindi? Quindi cartina dei mezzi alla mano, Alice e Sofia salgono su un autobus sgangherato per arrivare al capolinea della metropolitana rossa, destinazione Art Hotel, in Bem Rakpart 16, a Buda.

La fermata si chiama Batthyany tèr. E basta il suono a vagheggiare il preludio ad un che di sconosciuto, un’atmosfera diversa e melliflua che le avvolgerà, la strana magia della capitale magiara.

La cosa più stravolgente, per Alice, sono i cartelli per strada. L’ungherese è illeggibile. Sembra quasi un alfabeto diverso. Non si capisce nemmeno cosa sia scritto sulla pubblicità dell’Ikea. Ma lo parleranno l’inglese qui? E soprattutto, come fa Camilla a comunicare con l’Austroungarico?

Mentre Sofia armeggia col cellulare per telefonare a casa, avvisare che è arrivata e sentire la vocina della sua piccola, Alice guarda curiosa fuori dal finestrino l’Ungheria che scorre dietro il vetro sporco. L’autobus si ferma spesso, tra campi, fabbriche, cartelloni pubblicitari e l’inizio della città. Al capolinea, ecco la fermata della metropolitana. Sofia si affretta a scendere, sgambettando, Alice invece si attarda sul predellino, catturata da uno sguardo: accanto a lei scende dall’autobus il passeggero curioso, quello dei fazzoletti. Si gira un istante, la guarda, le sorride. Poi, inaspettatamente, le dice: “Hope you’re feeling better. Tears don’t fit such a shiny face.” Scende e si inabissa nella scala mobile della metropolitana.

“Cosa ti ha detto?”

“Eh?”

“Il tipo che ti ha parlato, cosa ti ha detto?”

“Una stupidaggine.”

“Sì, ma cosa ti ha detto? Hai una faccia imbambolatissima!”

“Niente, Sofi. Era solo un tizio che era sull’aereo con noi. Ha detto buon proseguimento.”

“Mi pareva più complesso, come concetto.”

“No no, tutto qua.”

*Tanto Sofia mica lo sa l’Inglese, lei parla solo Francese.*

Ci sarebbe da chiedersi perché non tradurre una frase tanto gentile. Ma farlo significherebbe non conoscere Alice: c’è da immaginarsela, lei che traduce e Sofia che la prende in giro. Meglio non correre rischi.

Scendendo, Alice cerca traccia dello strano viaggiatore straniero dall’accento indefinibile, ma non ne trova. Sollevata, si rimette a guardare la mappa per seguire l’itinerario dei treni e portarsi a destinazione.

La metropolitana è grigia, vecchia e funzionale, come quella di Praga. Vagamente angosciante la voce fuori campo che ripete i nomi delle stazioni ed alcuni altri suoni inintelligibili, difficile cambiare al momento giusto. Due rampe di scala mobile molto ripida ed eccole in superficie, dentro una teca di vetro che protegge chi entra dalle intemperie del clima, anche se oggi il tempo è buono.

Sofia la strattona, mentre escono dalla stazione. Lei alza la testa, seccata, e poi, altrettanto inconsciamente, rilascia la mandibola contratta. Di fronte a loro, sbalorditivo, il Danubio brillante della luce del sole e lo stupefacente palazzo bianco con le guglie rosse che poi scopriranno essere la sede del Parlamento ungherese.

Sacca in spalla, occhi aperti e testa per aria, eccole che camminano lungo il Danubio, in Bem Rakpart, alla ricerca del civico 16, che per fortuna è molto vicino alla fermata. L’albergo è elegante, pieno di gente affaccendata al reception desk.

Alice striscia la carta magnetica per aprire la porta della camera 401, al quarto piano, con una certa diffidenza. Il tetto obliquo la fa sentire a casa, la grande finestra sul cortile interno illumina la stanza a giorno. Letto matrimoniale, armadio a specchi, aria condizionata, scrivania. Meno male, la scrivania. Un piccolo bagno in stile minimalista.

Si sono date appuntamento tra dieci minuti in reception. Bisogna darsi una mossa. E poi, dopo 8 ore che è sveglia, Alice comincia ad avere fame.

“Sono arrivata. L’albergo è stupendo. Conto di divertirmi. Tu come va? Un bacio.” Un sms per Francesco.

*Risponderà? Magari tra dieci ore.*

Allo specchio, si spettina i capelli e si guarda riflessa, respira: *Ma sono io?*.

Ed esce dalla stanza.

Nella hall dell’albergo Sofia parla al telefono, probabilmente con la piccola Anna, a giudicare dall’espressione intenerita, poi improvvisamente il suo sorriso si irrigidisce e lei comincia ad attorcigliare nervosamente i capelli neri attorno all’indice della mano destra. Ha gli occhi nascosti dietro le enormi lenti scure, ma è evidente che sta parlando con sua suocera.

Quando riattacca, Alice si avvicina: “Cerchiamo un posto dove mangiare?”.

“Sì, forse è meglio. Magari stavolta mi convinci anche a bere una birra vera”.

Dopo venti minuti di cammino nel sole dell’Europa Centrale siedono in un pub sotto il castello di Buda, a trecento metri dalla partenza della funicolare. Due birre, del Gulasch: what else? È l’una. Il sole è alto nel cielo. La città è silenziosa. Nel gazebo all’aperto ci sono solo loro due. Sofia con macchina fotografica e Alice con la carta, la penna e la guida. Un’oretta a chiacchierare e pianificare il poco tempo di cui dispongono, mentre Camilla le avvisa che l’appuntamento è alle sette nella hall dell’albergo, anche con Sissi.

“Sofi, abbiamo quattro ore: direi che ci facciamo una passeggiata al Castello di Buda, quassù”.

“Non vorrai mica salire a piedi?”

“Certo che sì, dovrei prendere la funicolare con le vertigini?”

“Ali, non me ne frega niente delle tue vertigini. A salire con la funicolare ci mettiamo dieci minuti. A piedi almeno tre volte tanto, e poi io sono stanca.”

“Vabbè, se muoio mi avrai sulla coscienza”.

Ting ting. Il display del telefono si illumina e brilla, sullo sfondo in bianco e nero di una foto scattata Leo, l’amico un po’ stregone e un po’ fotografo, una scritta bianca sul blu. “Ciao spicchio di luna, sono contento che tu stia bene. Qui la giornata è durissima ma stasera si balla. A dopo. Kiss”.

Beh, ci ha messo solo un’ora, a rispondere, Francesco.

Davanti alla stazione della funicolare per il Castello di Buda sembra di stare in un libro di Sàndor Màrai. Le vetture ricordano dei veicoli del millesettecento riadattati per la locomozione moderna e lucidati per l’occasione e si arrampicano vertiginosamente sulla collina. Mentre salgono, il cielo si ingrigisce, si rannuvola e minaccia qualche goccia di pioggia, rendendo ancora più suggestivo e vagamente romantico il panorama.

Lassù la vista è mozzafiato, catturata dal grigio torbido del Danubio che scorre veloce e separa la collina di Buda dalla pianeggiante Pest, scoprendo agli occhi il Parlamento, l’imponente ponte delle Catene, e tetti e palazzi senza soluzione di continuità spaziale. Laggiù, in controluce, davanti alle nuvole lattiginose intermittenti nel celeste del cielo, troneggia la statua di un enorme rapace, l’uccello sacro dei Magiari che sembra un po’ un Nazgûl ed è davvero sinistro. Il sole va e viene, un vento freddo e traditore sferza nell’aria. Sotto gli occhiali da sole, dentro le spalle, fa un po’ freddo.

Alice e Sofia camminano, svagate, sbadate, assorte. Tra gli archi e le colonne di marmo bianco, in un angolo remoto ma affollato, nell’aria risuona l’eco di un ritmo familiare, forse un contrabbasso. E sì, a guardarci bene eccoli lì, in una nicchia del bastione, quattro jazzmen in perfetto tight, che deliziano l’aria circostante con dello swing in pieno genere anni Trenta.

Alice sosta, imbambolata, a guardarli. Sofia gironzola e scatta qualche foto. Da lontano, a tradimento, immortala la sua amica che ascolta la musica del diavolo con gli occhi persi in uno di quei dove dove non  la si raggiunge mai:  controsole, con i capelli ancor più spettinati del solito dal vento, lo sguardo perso dietro le lenti scure, le caviglie sottili che si passano il cambio di peso dentro le scarpe, le dita che schioccano accanto al viso imbronciato, tenendo il tempo. Una bambola curiosa e un po’ arrabbiata.

Alice tiene gli occhi chiusi e muove la testa, Sofia la guarda, curiosa, attraverso l’obiettivo. Non è cambiato niente, in tutti questi anni, forse solo che prima ascoltava più volentieri anche robaccia da boyband mentre adesso fa l’ascoltatrice sofisticata, ma l’ha sempre fatto di annegare nella musica e perdersi a lungo nelle note, fino a dimenticare dov’è.

C’è qualcosa che Sofia non capisce, di Alice, guardandola. C’è un che di incompleto, di sfuggente, di acerbo nell’immagine della sua amica che ascolta assorta la jazz band che improvvisa lo swing. Ah, ecco cos’è … è proprio lo swing. Sono i piedi, di Alice: non si muovono. Sta ferma, sul posto, e cambia il peso da una caviglia all’altra, ma non balla. Non lo balla, questo swing, che però sembra irresistibile a sentire lo schioccare delle dita. Eppure ballava, una volta. Sì, è vero, con Luca … però ballava.  Adesso sta lì, come una palla di energia compressa, come se provasse qualche desiderio e poi lo sopprimesse subito, come se non ne avesse il coraggio. Mah. Bisognerà pur far qualcosa.

Sofia aspetta la fine del pezzo, poi interviene: “Ehi, lo so che ti piace ma … sono le cinque e mezza, andiamo?”

Alice riemerge dal momento di vaga estasi, si strofina la testa pensosa e annuisce.

Dai Bastioni si scende lungo una scala, bianca e ripida, e poi su un sentiero di gradini di terra. L’albergo non è molto lontano.

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