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scrivere, leggere, rileggere

Diceva l’inutile bionda di Midnight in Paris che “il problema, con voi scrittori, è che siete sempre così pieni di parole”.

Rispondeva Alice, con la sua grazia da moretta strafottente, che “il problema sta in voi che, oltre a non scrivere, nemmeno sapete leggere, e proprio non siete in grado di capire, nè di rispondere”.

Ecco, è da questo punto che comincio a mettere a terra, oggi che mi sono svegliata così male. O forse così bene? Le emozioni intense e forti, gli sbandamenti, le follie e le stronzate di queste due settimane si sono ricollezionate tutte insieme qualche ora fa e, improvvisamente, ho fatto crack.

Forse che forse, intravedo la versione beta della mia Alice 3.0.

E per scriverla, tutta questa roba, devo tornare indietro e rileggermi, da quel 2009 che mi ha sconvolto la vita e regalato la mia meravigliosa e complicatissima me stessa.

Lì che mi chiedevo se dovessi orientarmi seguendo la stella polare o se dovessi invece seguire la luce di quel che credevo essere il sole ed era solo un traghetto verso le sponde di ciò che sono.

Stamattina mi sono svegliata ricordandomi, inaspettatamente, quella gioia tremante prima di andare alla cena dell’Alub, quella sera che ho scelto l’uomo della mia vita seguendo, è vero, il senso della logica che mi era imposta, ma ho anche abbandonato la mia testa tra le braccia di uno che mi avrebbe amata così tanto da lasciarmi andare dove dovevo (e non volevo) andare. Quello era, è stato, un amore pulito e bellissimo. Forse non intenso e non feroce, sì, però è stato vero. Pieno di cose. Pieno di parole e sincerità, pieno di speranze, promesse, di sogni per il nostro futuro. Come abbiamo fatto a rovinarlo, non lo so. Probabilmente sono stata io. Ma poco importa, adesso. C’è stato. C’è stato un tempo in cui sognavo una casa, in cui pensavo per due, in cui non camminavo mai da sola al freddo, in cui non avevo mai paura di dire, nè di dare.

Tutte le volte che mi avete sentito dire che non amavo Matteo, lo sapevate che stavo dicendo una bugia. L’ho amato, anche se non era giusto per me. Non era giusto perchè io ero questa, e non quella, ma come potevo saperlo? La resilienza esistenziale mi ha riportata a me stessa, anche se mi avevano placcata nel guscio, ma tutte quelle cose che abbiamo fatto assieme avevano senso. Avremmo forse dovuto farne altre, per non ritrovarci così. Così che addirittura, oltre a sciogliere, arriviamo ad annullare. Amen. Così sia.

Io non lo annullerò quel ricordo. Sarò sempre stata sposata con uno spirito delicato e profondo, troppo chiuso per sentire la mia forza, troppo fragile per sopportare le mie esplosioni stellari, troppo poco goliardico per avvicinarsi al mio lato euforico, però prezioso, delicato, pulito e sincero.

Come nella mia Valeille: ” Siamo arrivati lì, dove gli stambecchi vanno liberi e non c’è anima viva se non quelli come noi, che sono qui per camminare e respirare e …ci siamo fermati. Ci siamo fermati perché avevamo dei limiti: non avevamo l’abbigliamento adatto, non avevamo l’esperienza, non avevamo l’allenamento, non avevamo… il coraggio. Il coraggio di osare, di andare, di sognare, di salire, di seguire i nostri desideri.”

E’ proprio lì, a Cogne, sulla sponda della Valeille, che ho capito che quello che sarebbe diventato il dottor stranamore aveva un posto, aveva un senso. Un altro senso.

Mi ricordo la mia povera piccola me stessa accartocciata su se stessa in riva al fiume, le lacrime che scendevano a profusione, e io che sapevo perfettamente che non c’era più niente da fare e negavo, negavo, negavo… facendo morire di dolore e di solitudine uno che invece si meritava solo amore.

C’è stato il viaggio a Praga, quando ho ricominciato a scrivere e smesso di fare l’amore per anni, fino all’altro ieri. C’è stato il viaggio a Roma e la prima volta che ho avuto il coraggio di prendere un treno da sola.

C’è Alice che a novembre 2009 scrive “Cioccolato, zenzero e cannella” e riscopre che è viva. Che la separazione si può superare, ma soprattutto, che sente che non dovrebbe abbandonarsi a qualcosa che sia meno di quello che merita. E invece, stupidamente, lo fa.

Forse ne avevo bisogno. Forse non sarei arrivata qui, senza. Forse, se mi fossi fermata e non fossi salita su quel treno in fiamme, adesso non potrei guardarmi allo specchio e riconoscermi. Avevo già capito che una risposta coi puntini di sospensione ad una delle lettere d’amore più belle che io abbia scritto per me non sarebbe mai stata abbastanza. Eppure mi sono lasciata andare. In qualche modo, debolmente e ferocemente amare.

Avevo bisogno di forza e di passione, di risate e di stronzate, di provare l’aspetto edonista e avventuroso della vita, per questo mi sono abbandonata alle sgrammaticature del dottor stranamore, perchè mi serviva di credere che potevo vivere ancora.

Con Michele le emozioni sono state forti e intense, sono state tante, a volte addirittura travolgenti. Correre, bere, fare cose straordinarie per dare un senso alle nostre giornate. Viaggiare, bruciare, rubare il tempo alla notte per avere più ore a disposizione. Lo chiamavo stranamore perchè non era l’amore che conoscevo. Adesso che ho guardato gli occhi d’oro e non li ho riconosciuti, so che era strano, e non era amore. Eravamo due splendidi, bellissimi, amanti. Un participio presente al plurale.

La mia vita con te, stranamore, mi ha portata da me. Ho scritto tanto, anche se meno di poi, ho letto tanto. Ho ritrovato le persone che stavo smarrendo, loro fuori dal guscio ed io dentro. Ho imparato ad amare me stessa, a prendermi il mio tempo, a gestire la follia, ad apprezzare la stregatta anzichè tenerla ben nascosta dentro un maglione troppo largo.

Il duemiladieci è stato l’anno dell’ebbrezza e della gioia stolida ma utile. Dovevo imparare la leggerezza ed accettare l’imperfezione, non potevo rimanere solo la copertina lucida di una rivista patinata. Dovevo conoscere la mia me stessa sensuale e non solo intelligente, vitale e non solo performativa. Dovevo scoprire la supernova pulsante che ho dentro.

Forse, hai ragione tu, dovevamo finire lì, quel 27 dicembre duemiladieci, quando per una stupida lite ci siamo fatti tanto male. Lo dovevo capire quando, nel raccontare il nostro viaggio negli Stati Uniti, non ho mai parlato di noi. Lo dovevo capire quando io ho pubblicato i Quaranta Capoversi e tu non sei stato capace di rispondermi in alcun modo, anche se ti sei messo a piangere di commozione.

Io che sto sveglia notti in segreto a lavorare su ogni singola parola, per ore ed ore, al solo scopo di farti il regalo più speciale ed unico del mondo, pensando che non l’avresti mai dimenticato, e poi mi accorgo che per te è solo un post di Guscio. Guardo oggi Anna che legge orgogliosa ad alta voce alle amiche il Decalogo della 2.1 che le ho regalato, e penso che quello è l’uso che vorrei fosse fatto delle mie parole. Avrei voluto che ne fossi orgoglioso, avrei voluto che ti riempissero del senso del mio amore. Io che avevo scritto con tanta fatica un autoritratto per me e ne avevo dedicato uno, speciale speciale, solo a te.

E tu non l’hai capito. O meglio, semplicemente, non eri in grado di darmi quello che volevo. Non sapevi rispondermi. Non avevi le parole, non avevi le emozioni. Avevi gesti eclatanti e regali, tanti, è vero, ma il milione di piccole cose di cui avevo bisogno non le hai mai capite. Ricordo quando Marco mi ha detto che leggendoli si è commosso, e che lui sarebbe stato tronfiamente fiero di ricevere una dichiarazione d’amore di quella portata. Lì, in quel punto, ho cominciato a sentirmi sola. Altri leggevano i miei Quaranta Capoversi, io li recito quasi a memoria quando sento “How to save a life”, e tu probabilmente nemmeno li ricordi, perchè ami le cose grosse e materiali, e non certamente i miei aggettivi appassionatamente selezionati per una pagina bianca del web, che avrebbero voluto essere un regalo per l’eternità e non solo per il tuo quarantesimo compleanno.

Il duemilaundici è stato un massacro. Tutto sbagliato, tutto inverso ai miei desideri. Tu che leggi il mio libro per forza, che vai al cinema con Laura anzichè con me, che non mi chiedi di andare a teatro, che nemmeno ascolti più la mia musica. Tu che sei geloso delle stronzate e non ti accorgi che sto andando lontana, che mi dici centinaia di bugie per non affrontare la realtà, che mi lasci ingrassare così sono più brutta e non ti senti in colpa a tradirmi.

Il mio duemilaundici, senza di te, è stato bellissimo. Con te, un inferno che non doveva nemmeno cominciare.

Tutti sorpresi di come ho reagito subito e bene. Di come mi sono difesa, di quanto ho combattutto per me. Per forza. Perchè insieme non avevamo più senso, solo che tu non avevi il coraggio di dirmelo ed io di guardare in faccia la realtà.

Mi hai salvato la vita. Poi avrei dovuto lasciarti andare. Non tanto da un’altra, quanto dove volevi andare tu, che non è dove voglio andare io. Non dovevo credere nè cercare di convincermi di potermi accontentare del tempo andato e di quel che poco che sapevi darmi.

Come dice il mio piccolo sogno brillante, non dovevo accontentarmi: “Avere un cuore che batte non significa lasciarlo alla mercè del primo che passa, vuol dirle difenderlo, curarlo, nutrirlo…”

La mia perduta me stessa, dopo di te, si è abbandonata al vuoto, alla dissolutezza, alla freddezza, alla noia. Si è ritrovata nelle mani di sconosciuti, cercando di ritrovare la stessa ebbrezza forte che avevo con te. Solo che con stranamore l’avevo perchè ne avevo bisogno. Ora non ne ho più.

E carbonizzare la mia pelle bianca è una cosa che non mi consentirò più di fare. Le ustioni danneggiano l’anima e lasciano tracce sul corpo.

Vorrei volare, sognare e poi, dopo, quando ho capito, cominciare a costruire. Una vita, un progetto, un figlio. Un senso alle cose. Vedere la strada come la vede Andrea, che ne vale davvero la pena. Sapermi contenere, imparare a scegliere, e poi rimanere sul punto.

Certi giorni vorrei credere ai miei entusiasmi violenti, certi altri vorrei non averne, perchè mi confondono. Desidero per me un amore brillante, qualcuno che sappia chiedere, pretendere, rispondere, che non si spaventi del mio furioso lato oscuro e ne sappia apprezzare i vantaggi, che mi faccia ridere e che balli. Tanto. Desidero per me parole, passione, coerenza e sincerità.

E’ troppo? Spero di no.

Ne ho la forza? Non lo so.

Vale la pena di correre un altro rischio? Ne sono terrorizzata.

Ho paura. Moltissima. Ma mi conosco abbastanza bene da sapere che ha ragione Anna, e che sono molto, ma davvero molto, più bella così.

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